This War of Mine – Recensione

This War of Mine – Recensione

L’industry videoludica ci ha insegnato che “la guerra non cambia mai”, a suon di frasi altisonanti, di titoli cloni tra loro, di campioni di incassi che preferiscono le budella spappolate all’innovazione. La guerra viene quasi sempre esorcizzata, se non elogiata, grazie a marines dalla battuta facile e spesso squallida, tramite valori morali il più delle volte lontani anni luce dalla realtà, e non senza infarcire il tutto con piombo, proiettili, mirini dalla massima precisione e barre della salute ormai inesistenti.

Raramente un’opera interattiva ci ha sbattuto in faccia l’essenza barbarica e primitiva di un conflitto bellico, la desolazione tenuta al coperto da trincee e macerie, i volti segnati non dal rinculo di un AK-47, bensì dal freddo e dalla fame. This War of Mine vuol colmare quella lacuna, sparando fuori dalla sua artistica canna da fuoco un piccolo capolavoro non privo di difetti nelle sue meccaniche, ma con un messaggio al suo interno che vale ben più di un award dell’E3, di una media Metacritic superiore all’80 o di una campagna marketing milionaria.

La guerra è atroce, è uno schifo, e non guarda in faccia, né fa sconti a nessuno.

Pogoren: abitanti? Non pervenuto. Dov’è? Non lo sappiamo, e in fin dei conti non ci importa. Il teatro della guerra di This War of Mine ha un nome di fantasia, ma non si discosta troppo dalla durissima realtà di una Gaza, della Siria, del conflitto ucraino. 11 bit Studios ha sin dall’inizio dichiarato i suoi intenti: la guerra può colpire in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, quando meno te lo aspetti, come accaduto a loro stessi. L’ispirazione di quest’opera coraggiosa proviene proprio dalle loro esperienze, dalla loro sofferenza, dall’atrocità di perdere amici e parenti per la guerra di qualcun altro.

Rappresentare nello specifico le vicende di questo o quel paese, poi, non farebbe giustizia alla miseria vissuta a mille e più chilometri di distanza, evitando così a tutti i costi di stilare una classifica di disperazione di Serie A o B. Una città immaginaria come la già citata Pogoren, concettualmente molto affine all’Est Europa, sembrava proprio la perfetta location: ci sono un supermercato, un ospedale, una scuola, un’officina, e qualche villetta. Tutte abbandonate e in rovina da quando la guerra senza nome e senza tempo ha posto la sua nera mano su di esse, ma non disabitate: i soldati sono al fronte, ma i Signor Nessuno, quelli che nei videogiochi non abbiamo mai impersonato, litigano per un pezzo di pane, rovistano nella spazzatura in cerca di qualche medicina, scambierebbero la propria madre per un goccio d’acqua potabile, o si fanno trivellare da gang di ladruncoli, o da associazioni paramilitari che in tempo di guerra banchettano come avvoltoi sulle carcasse dei civili indifesi.

Ed è proprio nei panni di un manipolo di civili che il giocatore vi si ritrova grazie a, o dovremmo dire, “per colpa” di, This War of Mine. Solitamente, l’impersonare avventurieri, eroi o provocanti guerriere è un’esperienza piacevole, un’evasione dall’asprezza del mondo reale, uno svago da condividere con la dolce metà, amici e parenti durante le ore di tempo libero, ma questo “manifesto” dei polacchi 11 bit Studios è un pugno nello stomaco sferrato all’improvviso e proprio sul più bello, trattenuti come sarete “all’americana” dalle classiche meccaniche di un survival, e colpiti senza troppi convenevoli da una brutale e coerente rappresentazione di fatti non così lontani dalla realtà.

Ogni partita, generata casualmente e introdotta da un “Nuova Partita” ribattezzato neanche troppo ironicamente “Sopravvivi” (esatto, è stato tradotto in italiano!), vedrà tre sopravvissuti, qualche volta quattro, in una casa abbandonata, un quartier generale da gestire, arredare e proteggere al pari di una fortezza grazie ad una visione d’insieme in 2D, che presenta in ogni occasione una visuale completa della struttura (ma in quelle da esplorare aspettatevi la classica “nebbiolina”), ultimo baluardo di sicurezza, tranquillità (o presunta tale) e volti amici.

Ognuno di loro godrà di specifiche skill mutuate dal lavoro svolto nella “vita precedente”, come il cuoco Bruno, l’atleta Pavle, rapido come un fulmine, o la suadente Katia, esperta nelle contrattazioni e nel baratto (ma aspettatevi tante altre “storie” molto differenti tra loro). La narrazione? Scandita da biografie aggiornate evento dopo evento sempre diverse, da note e lettere ad amici e parenti trasudanti timore, follia, sogni infranti, da bollettini di guerra carichi di nomi e disperazione. Sarà il comportamento del giocatore, e di riflesso, delle sue appendici virtuali, a sviluppare una storia: un pout pourri di nefandezze o un inno alla gioia?

Il ciclo giorno/notte è fondamentale: la luce del mattino renderebbe chiunque un bersaglio troppo facile, e sarà d’obbligo restare al sicuro (?) e tenere a bada la parte gestionale, complessa e ricca di sfaccettature, di This War of Mine. Il banco da lavoro, una delle poche concessioni offerte dal team, è un’ancora di salvezza, in quanto permette di costruire praticamente tutto il necessario per sopravvivere, da numerose postazioni di crafting “specializzato”, come quella delle erbe e delle medicine, o delle armi e protezioni con le quali difendere ed offendere, fino ad oggetti di uso comune, come i filtri per raccogliere l’acqua piovana, dei letti sui quali riposare, oppure una chitarra con la quale rallegrare l’ambiente. Gli oggetti da costruire saranno un gran numero, e il dover decidere saggiamente su cosa investire le preziose risorse raccattate è forse l’elemento più debilitante dell’intera esperienza: costruire una sega con la quale poter esplorare nuove zone, o produrre alcool, utile a sbronzarsi e a soffocare i brutti pensieri e prezioso per il baratto? Dare la precedenza al distillatore o alla caldaia? Meglio un debole coltello oggi o una ben più potente pistola tra qualche giorno?

Ogni click in This War of Mine equivale ad una scelta pesantissima da compiere. La generazione casuale di eventi e situazioni non permette mai di avere un quadro chiaro della situazione, né di calcolare le possibili conseguenze di uno specifico gesto, almeno nel corso delle prime partite, e forse uno dei pochi nei del titolo risiede proprio nel suo rischiare di diventare prevedibile troppo facilmente, con una routine di accadimenti che ne appiattisce la giocabilità ed eventuali nuovi playthrough. Nel momento in cui la casualità prende il sopravvento, la frustrazione è invece dietro l’angolo: provando a ricaricare più volte uno stesso auto-save (assente nelle build precedenti e fortunatamente introdotto), mi è infatti capitato di assistere ad assalti subiti durante la notte coronati da una ferita mortale per uno dei personaggi, salvo poi ritrovarlo indenne nel reload immediatamente successivo, imitando (ma in infima parte, sia chiaro) quello che scoraggia gli estimatori della serie Total War, senza però fortunatamente godere della stessa pessima gestione dell’I.A.

A proposito delle condizioni di salute dei superstiti, quest’ultime godranno di un’importanza cruciale nel gioco, tanto quelle fisiche, quanto soprattutto quelle psicologiche: una ferita non curata indebolirà i nostri eroi e li indurrà a muoversi molto più lentamente, la depressione prolungata e non attenuata da cibo, attività rilassanti (come una fumata o una bevuta) si trasformerà in un’apatia che li renderà inermi ed impossibilitati a curarsi o mangiare, figuriamoci a rovistare negli altri edifici, mentre il rapinare una coppia di anziani, il rifiutare le richieste di aiuto dei vicini (magari gli stessi che si erano premurati di farvi avere le deliziose carote provenienti dal loro orticello) o il negare delle medicine alla madre morente di due poveri bambini, li tormenterà come un fantasma in pena, spingendoli ad amare riflessioni, a rimuginare in continuazione, ad interrompere o rallentare qualsivoglia azione in corso.

E poi viene la notte, tanto quella naturale quanto quella metafisica. Dalle 8 di sera in poi, This War of Mine cambia anima e la sua componente strategico/tattica sale al potere: una mappa di Pogoren mostrerà via via sempre più strutture da esplorare, e un comodo box indicherà a grandi linee, oltre alla percentuale di “rovistamento” dell’edificio nei giorni precedenti, la presenza delle risorse presenti, che spaziano da cibo col quale nutrire i superstiti (da cuocere con il fornello), agli scarti di ferro, metallo e legno fondamentali per il crafting, fino a parti di armi (incluse singole munizioni e polvere da sparo) con le quali tentare, è questo il giusto termine, di crearsi un arsenale.

Il giocatore dovrà scegliere chi e dove mandare in avanscoperta, a caccia di cibo, medicine e quant’altro, mentre gli altri membri della squadra potranno dormire (più o meno comodamente) o restare a guardia della “fortezza”, continuamente assaltata da altri disperati o balordi. Ma non aspettatevi banchetti, né accoglienza a braccia aperte: il variabile numero di slot liberi di ogni personaggio decreterà il limite massimo di oggetti recuperabili sera per sera (inclusi quelli da portare con sé, come utensili o cose da scambiare), spingendovi a selezionare ciò che serve nell’immediato e ciò che potrà essere raccattato l’indomani, e soprattutto, il rischio di trovare qualcun altro con le medesime intenzioni è altissimo. Quando va bene, è solo un giovane in cerca di medicine per il padre, pronto a barattare con voi, ma nella peggiore delle ipotesi, è qualcuno “armato e pericoloso”, che non avrà alcuna intenzione di dividere con voi le sue scorte.

Lo scontro diretto, seguendo pienamente la filosofia per nulla nascosta dietro il titolo, è e dovrà sempre essere l’ultima ratio, un po’ perché le scorte di elementi balistici sono sempre ben protette da eserciti armati ed è davvero dura procurarsene un po’ (se non tramite gli scambi che possono avvenire nel QG o da altri superstiti sparsi per i livelli), ma anche perché gli stessi scontri sono molto lenti e macchinosi, e salvo qualche scazzottata impersonando un individuo coriaceo come Boris, lento ma possente, il vostro affrontare con, ad esempio, l’accetta (utile anche per ricavare legno dai mobili inutilizzati) un nemico munito di pistola si concluderà sempre tragicamente. I tentativi di plasmare un combat system a base di schivate (nascondendosi in zone buie o dietro le porte) e click furiosi sono chiari, anche se le meccaniche stealth con le quali muoversi di soppiatto e “spiare” ciò che accade nelle stanze limitrofe serviranno proprio ad agire il più “pacificamente” possibile.

E a meno che non abbiate la freddezza di chiudere al volo il gioco e sperare in un reload, andando però così a svilire l’essenza del gioco stesso, la morte è definitiva. Può essere rallentata, rinviata temporaneamente, ma una volta che uno dei vostri personaggi non si riprenderà dalle ferite o non mangerà il giusto, verrà perso per sempre. Potranno persino andarsene definitivamente per via di un trattamento poco felice (o per screzi con altri “coinquilini”, da evitare grazie a lunghe chiacchierate continue e frequenti), oppure nel caso in cui non riusciate a completare la fase di raccolta di risorse entro l’alba, vagheranno per alcuni giorni sotto il fuoco dei soldati, rischiando di non far più ritorno, andando ad accrescere la depressione dei compagni, la loro insicurezza, la loro mancanza di forza di volontà per proseguire in questo bagno di sangue.

Come se non bastasse, a rendere il tutto più cupo e deprimente ci pensano le anime puramente artistiche di questa vera e propria “esperienza catartica”, dalla colonna sonora spettrale e in grado di regalare più di un brivido, con lo stesso tema ripetuto sino allo sfinimento senza mai annoiare, all’intero apparato artistico, fresco, originale e perfettamente coerente con l’atmosfera generale, nero come la pece, tratteggiato in maniera incerta come il disegno di un bambino fatto sotto i bombardamenti per alleviare la pena, eppure curato in ogni minimo dettaglio, dalle poltrone sulle quali riposarsi, a qualche vecchia bicicletta ormai inutilizzabile all’aria aperta, agli edifici da esplorare in ogni anfratto alla ricerca di qualche prezioso oggetto, strutturati brillantemente in modo da essere scoperti volta per volta e in più sessioni, costringendo il giocatore a tornare con la pala per ripulire il percorso dalle macerie, o con il piede di porco per aprire le serrature bloccate.

Ogni partita diventa quindi un canto decadente, sempre differente ed imprevedibile, dalla durata brevissima per via di qualche scelta errata, oppure eterna, più di un mese (in-game, l’equivalente di circa 7/8 ore in game), ma come detto, di una guerra se ne conosce l’inizio ma mai la fine.

In conclusione…

This War of Mine non è un semplice gioco: è un messaggio, è un manifesto ideologico, è un sonoro schiaffo alla leggerezza con la quale ci si occupa di alcune tematiche, spesso proposte in una chiave infantile, ipocrita ed ignorante. 11 bit Studios non vuole farvi rilassare, né farvi passare ore piacevoli, in quanto ogni minuto passato sulla loro piccola (ma grande) opera è un concentrato di sofferenza, ansia, decisioni pesanti come macigni e disperazione derivante da quest’ultime, tra i superstiti “condannati” a sopravvivere in un mondo che giorno dopo giorno li fa sentire sempre più indesiderati, e il giocatore stesso che inevitabilmente andrà a dubitare della ragione della sua permanenza nella disastrata Pogoren.

C’è però la componente ludica, con il suo focus sul crafting, l’esplorazione, e il meccanismo mentale “OK, raccatto un altro po’ di legno e poi vado a dormire” a tenere incollato il coraggioso individuo dietro lo schermo, ma sia chiaro, senza trasmettere quel senso di ricchezza tipico dei gestionali.

Non si ha mai la sensazione di avere la tranquillità “economica” di un The Sims: piuttosto, This War of Mine, con tutti i pro e i contro del suo gameplay, riesce perfettamente a dipingere la tragedia del dover lottare per un pezzo di pane, di dover sacrificare il singolo per il bene di molti (o viceversa), ricordando di non dover sprecare nulla, e di valorizzare ogni piccola possessione e concessione della vita o di chi ci è attorno.

È un’ode alla vita e alla morte allo stesso tempo.

Voto: 8,5/10

Traduttore e blogger freelance, adora (s)parlare di videogiochi e musica spaccatimpani tutto il dì. Quando può suona, gioca e legge, di tutto, anche le etichette degli shampoo. Terrore dei recensori e abbassatore di voti seriale, ha brillantemente sostituito le fatture ai suoi amati boss di Dark Souls, respingendo con caparbia ossessione e gioco di scudi qualsiasi backstab della vita sociale.

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