GameSoul.it

GameSoul Top 5 – I Game of the Year di Icilio

Il 2015 ci ha insegnato una cosa: a buona parte dei videogiocatori odierni piacciono le minestre riscaldate, spesso anche riscaldate malamente. I soliti piatti insipidi che con gli occhi sembrano ricordargli le lasagne della nonna, ma che dopo qualche boccone mandato giù, è ormai evidente (e troppo tardi) che si tratta in realtà di merendine scadute del discount della peggior risma.

Non mi sento di dar la colpa ai publisher. Non sono onlus, non sono dei mecenati, né dei filantropi: sono delle aziende con dei conti da tenere in ordine, con dei fatturati da far schizzare alle stelle. Alcuni di loro ci provano a far qualcosa di nuovo, ma quando vedono che il remaster del remake, o la compilation di solite, piatte, idee continua a fargli incassare fior di quattrini, chi glielo fa fare ad osare, a tenere a briglie sciolte la creatività? I giocatori votano comprando, e se comprano la settima copia dello stesso gioco su una console diversa (*coff coff* Final Fantasy VII su PS4 *coff coff*), mandano un segnale tremendamente sbagliato, ma purtroppo importante, in grado di dar vita a trend sempre più odiosi ed insopportabili.

Amare riflessioni a parte, preferisco spostarmi su quel che invece mi è piaciuto nel e del 2015. Non ho giocato tantissimo, un po’ per via del tempo sempre tiranno, un po’ per la necessità di dover provare tutto per esigenze lavorative, ma anche per via di una dieta “onnivora” che ormai fa parte di me da tanti anni (e che copre anche altri universi, come quello musicale o letterario). Il poco che ho giocato, in compenso, mi è piaciuto e non poco. Salvo delle prevedibili scottature (il mio 3 a Tony Hawk’s Pro Skater 5 è abbastanza eloquente), ho investito saggiamente il mio tempo, in esperienze profonde ed appaganti, divertenti e dannatamente coinvolgenti. Alcune lunghissime, altre brevi come un pomeriggio, intense come una sera d’estate calda e sinuosa. Oppure macchinine che giocano a calcio. E a me il calcio neanche piace. Ma le macchinine sì, oh se mi piacciono le macchinine.

E dopo questa virtuale pacca sulla spalla data a me stesso, ecco a voi la mia personalissima Top 5, sofferta per ben due motivi: ho dovuto omettere tanti gioconi ai quali non ho potuto dedicare la passione e il tempo che meritavano, ma soprattutto, perché sto scrivendo tutto ciò con un solo occhio pienamente funzionante. Ma ci tenevo. Ho inserito i videogiochi di questo 2015 che più mi hanno colpito, e che a mio parere hanno impartito delle grandi lezioni di design, e non solo. Ci sono giochi (non menzionati) che probabilmente mi sono piaciuti di più, ma l’han fatto coltivando il loro solito orticello: ho quindi preferito chi ha osato di più, come il primo di cui vi parlerò.

 

Corri alla posizione 5 ….


Posizione n°5: Xenoblade Chronicles X


Un’esclusiva Wii U potente, sulla quale ho scommesso e sbavato per anni. Una killer application che ha spremuto quella scatoletta tirando fuori un mondo immenso, pazzesco, semplicemente divino. Meno divino del suo predecessore, data la trama più semplice e scontata, ma al cospetto di quel ben di Bionis, c’è davvero poco di cui lamentarsi. Foreste, deserti, manti erbosi che pullulano di creature di ogni taglia, da minuscoli ed insulsi uccellacci a brontosauri grandi quanto grattacieli.

[adinserter block=”1″]

Ho vissuto questo gioco come un safari virtuale, spalancando la bocca ad ogni passo, girando ogni angolo, raggiungendo ogni anfratto visibile ad occhio nudo, spesso ignorando una delle centinaia di quest e sidequest proposte, semplicemente per fare due passi, una scampagnata nel vasto ignoto di Mira. Tecnicamente, lo ammetto, mi ha convinto poco, ma Monolith Soft sbaraglia la concorrenza con un design eccelso, oltre ogni livello. Visivamente e concettualmente, è l’RPG che ho sempre sognato, c’è poco da fare. Chiudono il cerchio un combat system veloce e snello, una personalizzazione ai limiti dell’asfissiante e gli Skell, dei robottoni costosissimi e preziosissimi che vi permetteranno di raggiungere aree altrimenti precluse ai semplici umani, che andranno accuditi come una Lamborghini, ma che vi regaleranno altrettante soddisfazioni. Dei robottoni altissimi, capite? Prendere a bastonate dei simil-brontosauri con dei robottoni, in un RPG: devo giustificarlo ulteriormente?

Posizione n°4: Rocket League


Macchinine. Che giocano a calcio. Con dei palloni enormi. Un’idea talmente scema, semplice, assurda, in grado però di farmi ridere come un’idiota, urlare, gioire, maledire tutto e tutti, litigare con gli amici in chat, per tanti pomeriggi e tante notti estive, passate a sciogliermi per il caldo, e a slogarmi i polpastrelli col “giochetto del Plus” che non ti aspetti. Difficilmente gli avrei dato una chance a scatola chiusa, ma Rocket League, ennesima perla indie scoperta grazie al servizio di Sony (che insieme a quello di Microsoft propone ogni mese delle vere gemme) merita ogni centesimo. Il gameplay è asciutto, eppure così assuefacente: bisogna fare gol nella piccola porta avversaria, sfidando da 1 a 4 avversari, avvolti da un pubblico quanto mai superfluo, e da una gabbia invisibile, dei muri trasparenti da sfruttare come una vera e propria “arma”. Ho perso il conto dei gol di rimbalzo, le “botte di culo” che mi han permesso di segnare, mio malgrado, persino con una parata fortuita e anch’essa “sculata”, sulla linea, pericolosamente sfiorata tante, tantissime volte, anche in fase offensiva.

[adinserter block=”1″]

I replay visti tra schiamazzi e sberleffi rivolti agli avversari, le urla propiziatorie prima, dopo e durante un tiro poderoso o un salto folle, spesso accompagnati da dei lisci degni di Mai Dire Gol dei tempi d’oro, le capriole, i tiri dello scorpione alla Roberto Carlos, ma in versione meccanica, le tonnellate di video tutorial visti, o le compilation di fenomeni, da invidiare con veemenza perché “Come diamine riescono a segnare di ruota anteriore destra da centrocampo, mentre io non becco la porta vuota neanche da dentro l’area?”. Lo ripeto, un’idea semplice, eppure così brillante, così ben realizzata, così esagerata da trasformarsi in un vero e proprio fenomeno milionario, con annessi tornei. Tornei, capite? Come Call of Duty. Ma con le macchinine, e i palloni. E i buffi cappelli con i quali personalizzare i veicoli, le bandierine, le decalcomanie, ottenute randomicamente partita dopo partita, gol dopo gol. Rocket League è fresco, semplice, divertente: ha osato con un’idea talmente assurda da risultare vincente, e chissà che non passi il messaggio che l’ordinario ha stufato, così come il prendersi troppo seriamente. Gli sviluppatori di 100ft Robot Golf promettono di aver compreso la lezione, e già immagino la Top 5 del 2016 con il sottoscritto che si ritroverà a lodare i ragazzi di No Goblin per i loro robottoni golfisti, un po’ come sta facendo ora con Psyonix e le calcio-macchinette.

Posizione n°3: The Witcher 3: Wild Hunt


Da amante degli RPG, non poteva non figurare nella mia personalissima Top 5 di fine anno l’opus magnum dei ragazzotti polacchi della porta accanto, quei good guys dei CD PROJEKT RED che tra indubbia qualità e trovate PR azzeccate, si sono guadagnati la stima incondizionata di tantissimi giocatori. E non solo per i DLC gratuiti, le feature e i miglioramenti inseriti dopo neanche troppo insistenti richieste, o per le espansioni (una già arrivata, una, si spera, presto in arrivo) degne di tale nome: il terzo atto della loro gigantesca saga è un vero capolavoro. Splendido da vedere, profondo da giocare, con l’ostico gameplay del passato rifinito, perfezionato e reso più accessibile, ma non per questo meno appagante, e ricco di cosa da fare, o da fissare imbambolati, siano esse creature ai limiti del mitologico, o scorci da cartolina provenienti da un’epoca che non c’è e che forse non è mai esistita, ma che possiamo esperire grazie alla loro fantasia esplosiva.

[adinserter block=”1″]

La trama è ancora una volta coinvolgente, e soprattutto matura: non teme di trattare tematiche ben lontane dalle solite, passatemi termine, cazzate che spesso troviamo sempre più spesso nel nostro amato, ma a tratti infantile, medium. Geralt di Rivia preferisce passare il suo tempo libero distribuendo amore e testosterone sui letti e sugli unicorni di mezzo mondo, piuttosto che darsi vicendevolmente pacche sulle spalle con i suoi noiosi e patetici compagni di avventura, e per i suoi tremendi ed orripilanti nemici si è pescato dall’occulta e misconosciuta mitologia est-europea, non dal cestone dei mostri giocattolo di un Autogrill. Ho controllato ogni anfratto, parlato con chiunque, accettato ogni quest ignorando il più delle volte quella principale, con il rischio di perdermi qualche dialogo ben nascosto o qualche compito, e sarebbe stato un delitto, perché anche l’ultimo degli NPC aveva qualcosa da dirmi, qualcosa da darmi, qualcosa da affidarmi. Ogni gesto ha portato a conseguenze imprevedibili, ogni missione, anche la più, apparentemente insulsa, aveva una storia, triste, sofferta, dietro e dentro di sé, microcosmi spenti dalle due affilate lame dello strigo, invasi dal suo ardore, dalla sua strafottenza cronica, dal suo irresistibile carisma. Da grande voglio fare lo strigo anch’io, e sfidare il mondo al Gwent, uno di quei minigiochi in grado di rubare la scena al gioco principale al pari del Blitzball o del Triple Triad (e vi parla un folle che passò uno dei suoi molteplici playthorugh a raccogliere tutte le carte di Final Fantasy VIII, per poi mollare il salvataggio all’inizio del quarto disco, una volta recuperata l’ultima carta), cosa che non accadeva dall’epoca d’oro del genere, dai capolavori di Squaresoft. Senza -Enix.

 

Posizione n°2: Her Story


È brutto da dire, ma ho il pallino per i giochi da hipster. Quei giochi strani, particolari, che nessuno vuole giocare, ma che per sentito dire, prima o poi, vanno provati, volente o nolente. Her Story, però, è diverso. È un qualcosa di unico, ed è un traguardo per il gaming tutto proiettili e morali da filmetti di serie Z, un curioso esperimento premiato un po’ ovunque, e per motivi più che giusti. Posso dirlo? Un David Cage a caso, un’opera simile, se la sogna. Questa è la narrativa alternativa che tanti game designer cercano a lungo di ottenere, salvo poi rifugiarsi nelle solite stronzate trite e ritrite, nelle cinematiche che per carità, son belle da vedere eh, ma invadono un altro medium, e passano l’idea che i videogiochi hanno bisogno di prestiti, anche importanti, per poter dire qualcosa. Poi arriva Sam Barlow, e ci mette davanti ad un vecchio PC della polizia, all’interno del quale sono presenti 7 interrogatori (inventati) risalenti al 94 fatti ad una donna, splendidamente interpretata da Viva Seifert, coinvolta nella sparizione del marito. Si inseriscono delle parole nel database, composto da brevi frammenti di questi interrogatori, e si scava nel passato della donna, nel profondo della sua psiche, provando a srotolare il bando della matassa, ad unire i punti, a trovare una coerenza, un senso a questa storia, alla Sua Storia.

[adinserter block=”1″]

Lo ammetto: mai come prima d’ora mi sono sentito un vero investigatore… altro che gli interrogatori di L.A. Noire. Non c’è una vera e propria interazione, si possono solo cercare e vedere, studiare, scrutare i video, ma ho passato circa due pomeriggi ad annotare dettagli, a pensare a delle parole chiave in grado di ampliare la ricerca, e di far saltare fuori dei nuovi video, la chiave di volta con la quale risolvere il caso. Ho conservato i miei appunti perché ho ancora uno splendido ricordo di quell’esperienza, unica, originale ed irripetibile, vissuta tra colpi di fortuna per un termine cercato per puro scrupolo, ma in grado di far salire a galla dei dettagli inquietanti o particolarmente utili. Perché la storia del personaggio interpretato dalla Seifert, merito anche della sua eccezionale prestazione, ti entra nella pelle, ti instilla uno, dieci, cento dubbi, e te lo porti addosso per qualche giorno, meditabondo, dubbioso, incerto su cosa sia vero o no, su cosa sia reale oppure no. Cage e “riformatori” delle esperienze cross-mediali-vattelappesca: prendeteli pure voi un po’ di appunti.

Posizione n°1: Bloodborne

Tra i protagonisti delle foto profilo estive dell’utente medio Facebook ci sono gli occhiali da sole, le scottature, il mare, i sorrisi, la gioia di vivere. Nel mio caso, il protagonista era lui, Miyazaki-san, che ho avuto l’onore e il piacere di incontrare fuori dalla LA Memorial Sports Arena dopo una conferenza E3 di Sony da capogiro, tra un The Last Guardian e un Final Fantasy VII Remake. Ero già divorato dalla gioia e dall’emozione (oltre che dalla stanchezza), e strappare una foto ad uno dei miei idoli del game design (grazie Giovanni “Dix@n”!) è stata la proverbiale ciliegina sulla torta. Lo so, in realtà non c’entra nulla. Però volevo farvi capire qual è il mio rapporto con le sue opere, quelle targate From Software, che venero sin dai tempi di Demon’s Souls, e dal delizioso (ma tremendamente spietato… sì, pure lui) 3D Dot Game Heroes (il più cazzuto tributo a Zelda della storia), e giustificare la prima posizione della mia Top 5.

Bloodborne è il gioco per il metallaro che non deve chiedere mai. È nero, è gotico, è stracolmo di sangue lupi mannari senza per questo risultare pacchiano. Tributa Lovecraft con tante sottigliezze (alcune in realtà grandi come cattedrali), concettuali e non, mette in movimento alcune delle sue visioni, concretizza quanto di più astratto abbia partorito l’oscuro maestro di Providence, ma anche il nipponico e visionario designer, il Frankenstein dei giorni nostri, in grado di infondere la sua personalità sopra le righe in ogni sua creatura. Ha inoltre rappresentato un punto di svolta per la saga “spirituale” dei Souls, spalancando le porte dell’inferno ad un pubblico impensabile fino a qualche mese va, passato dal vantarsi del proprio ratio kill/death di Call of Duty a discernere di build, statistiche e segreti, di cui il gioco è, come da tradizione, pieno. E no, niente paura: dal poco che ho provato di Dark Souls 3, e dai calci alle rotule ricevuti, no, niente ammorbidimenti, niente casualate, niente zuccherini per i poveri stolti incuriositi da questa serie di cui tanto si parla.

Cosa mia è piaciuto? Una lore più contorta e sopraffina che mai, più leggibile, ma occulta, malsana, distorta, criptica, morbosa, e nera anch’essa come la pece. Matrimoni di sangue, citazioni sublimi, castelli divorati dal gelo, foreste infestate, fogne più sporche del colon di un demone, e persino creature, forse, di un altro pianeta. È il contorno, il non detto, l’imperscrutabile che rende superiori le opere di From Software, e che mi ha fatto innamorare di Bloodborne. Insieme alle bastonate nelle gengive costantemente ricevute, ai Calici, sapiente trovata in grado di allungare il brodo col minimo sforzo e il massimo risultato, al gameplay più rapido e scattante che mi ha costretto a spogliarmi delle tattiche, delle certezze, di tutto ciò che mi permetteva di affrontarlo a testa alta, dando per scontato di trovarmi al cospetto di un Dark Souls con su un vestito più bello e goth. Mi ha tolto il giubotto, i guanti, la sciarpa, e mi ha buttato per strada, al freddo e al gelo, col culo per terra, senza difese, senza scudo, costringendomi ad imparare nuove regole, nuove leggi non scritte. Ed è stato tutto fottutamente bello, intenso, appagante, divertente. Anche dopo l’ennesima morte contro Amygdala, o contro la Figlia del Cosmo, quella maledetta Ebrietas che mi ha fatto sputare sangue. Perché altrimenti che gusto c’è a premere qualche tasto ogni tanto, a cervello spento?