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GameSoul Top 5 – I Game of the Year di Dex

E anche per quest’anno, come ogni anno, è andata. Che poi, ammettiamolo, noi videogiocatori siamo una di quelle razze che si lamenta sempre: “eh, non ho niente con cui giocare!“, “sì ok, ma escono sempre i soliti giochi” oppure “sì, carino, ma non ci sono più i giochi di una volta“. Che è un po’ come dire che non esistono più le mezze stagioni immersi nella piscina di un resort alle Maldive, ma di frasi del genere sul brilluccicante mondo dei videogames ne sentiamo tutti dalla mattina alla sera. Poi ti fermi un secondo, guardi il conto in banca e inizi a ripensare per quale motivo, negli ultimi dodici mesi, quel rosso fiammante che associavi al tuo conto corrente è in realtà un felice ricordo che ti accarezza la mente mentre osservi la fossa delle Marianne. Ed è proprio allora che fai due più due, inizi a capire perché nel tuo salotto aleggiano cavi, console, cataste di videogiochi impilati che ostacolano la normale deambulazione. E ti spieghi perché, nella tua ultima visita allo zoo, un Panda ha cercato di accoppiarsi con te dopo aver visto le tue occhiaie.

Perché dai, siamo onesti, in questo 2015 ormai agli sgoccioli di titoli interessanti ce ne sono stati un botto. E passi pure la moda dilagante delle Remastered, forse il ricordo più emblematico di questo “2015 in gaming” nonché fonte inesauribile di meme e prese per i fondelli in tutte le lande desolate dell’internet. Ma rispetto al primo imbarazzantissimo anno di current generation (no, non si chiama più next gen, ficcatevelo nella testa) questi ultimi 365 giorni qualcosina di buono l’hanno portato. Molto più di qualcosina, a ben vedere, visto l’arrivo di qualche esclusiva con gli attributi, di attesi multipiattaforma con annessa console war a base di “io ce l’ho più lungo, tu fai schifo, tua sorella è una ragazza impura“, di fallimenti più o meno eclatanti e, dulcis in fundo, di esclusive per Wii U. E si, so benissimo che fare battute sull’ammiraglia Nintendo è come sparare ad uno seduto comodamente sulla tazza: ma considerando che le alternative erano Call of Duty Ventisette e Assassin’s Creed ex, tutto sommato va bene così.

Se siete arrivati sino a questo punto chiedendovi cosa cacchio voglio dirvi, beh, fondamentalmente nulla di così interessante, se non la personalissima Top 5 dei giochi finiti da me medesimo quest’anno (quindi non venitevi a lamentare che non ci ho messo Her Story o Life is Strange, giusto per dire due bombe meravigliose, magari li finirò per la prossima Pasqua). Una Top 5 di cui, posso immaginare bene, ve ne potrà interessare tanto quanto dell’attuale situazione sociopolitica nella ridente nazione di Nagorno-Karabakh: però faccio battute divertenti e ci infilo pure qualche parolaccia a tradimento. Quindi boh, se proprio non vi passa una eva e avete dieci minuti da sprecare, siete nel posto giusto. Ah, dimenticavo: se non siete d’accordo con la classifica seguente non capite una beata mazza di videogiochi. Ma tranquilli, vi voglio bene lo stesso.

Corri alla posizione 5 ….


Posizione n°5: The Park


HAHAHA, vi ho fregati eh? Vi aspettavate qualche titolone tripla A col budget a settecentoquarantadue zeri… E invece no, oggi comincio con uno dei titoli indie che, nonostante la tiepida accoglienza (come potete verificare voi stessi su Metacritic), a chi vi scrive è piaciuto un proverbiale botto. The Park, creatura semi-sconosciuta dei ragazzi di Funcom che in un modo tutto sommato particolare rielaborano una delle storielle più care alla “letteratura videoludica” del terrore. Un figlio perso di notte in un Luna Park abbandonato e raccomandabile quanto il soggiorno del Cannibale di Milwaukee, una madre che di punto in bianco si trova a doverlo rincorrere quando, probabilmente, vorrebbe essere da tutt’altra parte e una serie di “misteri” travestiti da pupazzi e attrazioni che sembrano trarre forza dal calare dell’oscurità. Ve lo concedo, c’è un po’ di Silent Hill in tutto questo (genitore/figlio, luna park, mostri e suddetti): e sarà proprio per il mio amore incondizionato alla saga di Konami che, sto benedetto The Park, m’ha attizzato sin dal giorno del suo annuncio. Che poi davvero, non è che fosse iniziato col piede giusto: l’arrivo senza un motivo apparente ad un Luna Park praticamente dismesso, presidiato però alla biglietteria da un’individuo che sembra preso in prestito dai sogni dell’Agente Cooper di Twin Peaks, e una madre che urla il nome del proprio figlio in modo così scazzato che più scazzato non si può, quasi convinta che, dopotutto, potrebbe perdere anche la voce che non cambierebbe nulla.

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Le cose, invece, cambiano. E cambiano anche abbastanza in fretta, visto che la durata di questo The Park si aggira attorno alle due ore di gioco <rumore di disapprovazione in lontananza>. E prima che lo chiediate no, non c’è alcun mostro da eliminare o da cui nascondersi. Bel gioco del ca**o“, direte dunque voi ora a grandissima voce: e beh, da un certo punto di vista potrei anche concedervelo, viste le premesse. Non fosse che le due ore o poco meno di The Park sono oro semi-colato per gli amanti dell’horror “weird”, quello strano e intriso di sinapsi che non ci capisci mai un piffero per tutto il tempo e solo alla fine ti ritrovi la mascella al suolo dal colpo di scena che non ti aspetti. Quello di Funcom è un titolo fortemente narrativo, che mescola (e in alcuni passaggi ci riesce molto bene) la classica suspance del genere ad elementi grotteschi e fortemente evocativi – come possono essere peluche insanguinati, i mostri della casa dell’orrore o adorabili amenità simili, dai tratti ancor più esasperati per mettere in rilievo questa sensazione di disagio. The Park è tutto tranne che un gioco perfetto: è corto, ha delle meccaniche più semplicistiche che semplici, scazza pure alcune cose in termini di grafica e, pur inquietando non poco, riuscirà soltanto un paio di volte a farvi urlare le peggiori eresie. Però ha fascino, e racconta una storia così cupa e opprimente che, una volta iniziata, difficilmente riuscirete ad interrompere prima del sorprendente finale.


Posizione n°4: Hotline Miami 2: Wrong Number


Perché mettere in classifica un gioco fatto da sviluppatori dichiaratamente sotto acidi pesanti, con una grafica vecchia grossomodo quanto me, una colonna sonora degna del peggior rave sperso nelle pianure della Brianza e una storia che boh, una persona normale difficilmente riuscirebbe a concepire persino dopo un’intossicazione da impepata di cozze? Semplice, perché Hotline Miami 2 è una figata colossale. Uno di quei titoli che non capisci fino a quando non giochi, e che quando giochi finisce che non capisci comunque un cazzo visto che prendi ceffoni, mazzate e proiettili da destra e manca nell’arco di dodici secondi. Poi però a forza di ricaricare succedono due cose: uno, ti arriva una scomunica papale direttamente per posta e vabbé; e due, inizi a diventare più figlio di lupa tu dei bastardi che ti si piazzano davanti. Ed è esattamente allora che l’armonia dei ragazzi di Dennaton prende forma, trasformandosi da “casino colossale in cui fai tre passi e schiatti” a “shooter divino con una curva di difficoltà praticamente verticale ma più assuefante della Blue Crystal di Walter White”. Mettici una soundtrack malata che metà basta, uno stile grafico dai colori acidi e disturbanti, un gameplay che impari in dieci minuti ma che ti farà sputare più sangue di una trasfusione all’Avis e quella che ottieni è una delle esperienze più subdole e lisergiche attualmente disponibili su PC e console.

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Sì, vabbé, ma Hotline Miami 2 è un gioco vecchio per vecchi nostalgici“. Già, che è un po’ come dire che spendo 70€ di Rise of the Tomb Raider per vedere il culo di Lara su un 50 pollici. Hotline Miami 2 non è un gioco per tutti: e non tanto per un coefficiente di violenza che trasformerebbe in Quattro Cuccioli da salvare anche Le Iene di Tarantino. Si tratta di un’esperienza deviata, oniricamente assurda, un accozzaglia di frammenti mnemonici abbelliti da sangue e denti altrui che accompagnano il giocatore in un climax di “non ci sto capendo una mazza, ma non posso vivere senza sapere come va a finire”. Metteteci pure quella visuale aerea e quelo stile a 8 bit che ok, ai vecchietti come me una erezione la fa salire ancora, e capirete perché è impossibile non amare alla follia Dennaton Games e le sue maschere da animale.


Posizione n°3: SOMA


Una volta, chiacchierando con un amico, saltò fuori uno dei dubbi più ancestrali della mia carriera da videogiocatore. “Perché ti piacciono i giochi horror? Che senso ha farsela nelle mutande e restare immobili davanti allo schermo trattenendo pure il respiro, sperando che uno stronzo di mostro non ti veda e per sta botta ti lasci le budella all’interno della pancia?”. Lì per lì non riuscii a trovare una risposta abbastanza sensata se non “Boh, vedessi la gente con cui lavoro…”; e oggettivamente, ancora oggi faticherei a spiegare per quale motivo un gioco più è terrificante, più dev’essere mio. L’unica cosa che so per certo è che SOMA, l’ultimo titolo prodotto da quei maledetti di Frictional Games, non solo ve la farà far sotto in modo indimenticabile, ma vi costringerà pure a svariati cambi di mutande. Il che non è nemmeno così sconcertante, visti i risultati raggiunti dallo sviluppatore svedese col sensazionale Amnesia: The Dark Descent e, ancor prima, con Penumbra. Tuttavia a SOMA l’appellativo di “sequel spirituale” sta abbastanza stretto, e pur senza tradire quelle atmosfere angoscianti e quelle meccaniche di gameplay che da (praticamente) sempre caratterizzano l’operato di Frictional, evolve la propria profondità, cambia le prospettive, si infila subdolamente nel cervello del giocatore e lo fa pure riflettere.

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Ebbene sì, non solo urlerete come delle Majorette impazzite (e magari pure bionde) di fronte al solito serial killer con evidenti problemi di sessualità, ma tra un grido e un insulto sguaiato finirete pure per ritrovarvi a rimuginare sul mistero della consapevolezza dell’essere umano, su quei tratti che da semplici individui ci trasformano in persone, in esseri umani dotati di un’anima e di uno spirito. Tratti che, nell’arco di pochi minuti, verranno poi stravolti, accartocciati e lacerati nei modi più impensabili, regalando fugaci scorci di assurdo tanto indimenticabili quanto disturbanti. SOMA, insomma, è un titolo strano, magari meno terrificante del precedente Amnesia ma indiscutibilmente più subdolo, inquietante, intrinsecamente malato. La commistione horror e fantascienza di Frictional Games funziona che è una bomba, a patto di riuscire a tenere ancorate le chiappe alla sedia e a non scappare a gambe levate di fronte al primo coccolone a cui andrete in contro. Ma state tranquilli: più andrete avanti, peggio sarà …


Posizione n°2: Rise of the Tomb Raider


Ok, ok, tagliamo subito la testa al toro prima che sia troppo tardi: più passa il tempo, più Lara è gnocca. E passi anche che gli ultimi due titoli made in Crystal Dynamics sono dei reboot in cuil’esploratrice più famosa della galassia ha dato dimostrazione di avere un paio di argomentazioni mica da ridere anche da ragazzina. Ma in Rise of the Tomb Raider, la giovane Lara non è solo il manifesto del tipo di donna che il videogiocatore maschio medio continuerà a sognare da qui all’apocalisse zombie nei modi più inenarrabili e perversi possibili. Al contrario è un personaggio più profondo e combattuto che mai, con drammi interiori passati che ne lacerano il presente, dubbi, tormenti e rimpianti che ne segnano il cammino. Insomma, non una banale “petarda sensazionale” che geme in modi imbarazzanti quando deve saltare o conficcare un rampino su una parete (a tal proposito state tranquilli, i gemiti sono calati in questo secondo episodio ma sono comunque al posto loro): è un’eroina nel passaggio focale della propria crescita, in quella fase delicata che, la storia ci insegna, la consacrerà a tombarola più famosa (e gnocca, ok) del pianeta.

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Fatta questa doverosa premessa su Lara, che Dio la mantenga sempre in forza, che posso dirvi su Rise of the Tomb Raider. Che è un gioco ganzo, altrimenti sulla mia Top 5 di sicuro non ci finiva. L’ultimo capitolo del franchise racchiude l’essenza dell’avventura digitale più pura, trasuda quelle sensazioni della nostra infanzia quando si andava a caccia di tesori e crea una sceneggiatura che, tutto sommato, tra un colpo di scena riuscito e una sorpresa telefonata mezz’ora prima riesce ad incollare il giocatore allo schermo. Il tutto, che ve lo dico a fare, in salsa open world – che tanto va di moda da un paio d’anni a sta parte, con missioni secondarie facoltative che si affiancano alla storia principale, tombe da saccheggiare, tesori da trovare e via dicendo. Non stiamo parlando certo di GTA V, ma considerando la classica linearità dei “vecchi” Tomb Raider la nuova versione proposta dal team di sviluppo è davvero una ventata d’aria fresca nella serie. Che, inutile dirlo, non ha certo intenzione di fermarsi qui visti i risultati raggiungi nell’ultimo periodo. Quindi sì, bentornata Lara, sappi che a me sei sempre piaciuta. Anche quando le avevi così a punta che tra poco ti bucavano la maglietta.


Posizione n°1: Metal Gear Solid V: The Phantom Pain


E vabbé, tanti saluti e tutti a casa. Se trovare soltanto cinque giochi da mettere in questa sconclusionata classifica non è stato affatto cosa facile, diciamo che il gradino più alto del podio era abbastanza scontato: alla facciazza brutta di Konami, che a giudicare dalle ultime settimane deve aver commissionato l’estinzione degli unicorni nella vita passata, il primo posto non poteva essere che suo. Lui, con quella voce cosi ruvida che se ti urla addosso ti leva il primo strato di pelle. Lui, che una volta riusciva a prendere la mira utilizzando l’occhio bendato e ancora oggi non rinuncia a questa sana tradizione. Lui, che pur di fumarsi una paglia tra una missione e l’altra si fa costruire un siluro elettronico a metà anni ’70 da far impallidire le e-cigarette attuali. Potremmo andare avanti per una buona mezz’ora snocciolando le gesta epocali, gli inganni e le imprese di Big Boss, l’eroe più cazzuto della storia dei videogiochi – nonché, almeno per chi vi scrive, il personaggio più importante di tutta la saga di Metal Gear.

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Ora ascoltatemi bene: Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è un titolo che merita di essere giocato da chiunque almeno una volta. Punto. Nessuno vi chiederà di completarlo al 100%, di perdere anni, sentimenti e ragione su complicatissime missioni secondarie o a guadagnare una laurea in economia per gestire al meglio Mother Base. Nessuno sarà lì ad interrogarvi sul perché o sul per come, su chi erano Chico e Paz o sui mille retroscena di una delle sceneggiature più belle dell’ultimo decennio. E non provate nemmeno ad attaccare il solito pippone a base di “eh, ma io i Metal Gear non li conosco“, “a me i giochi stealth non piacciono” e “non lo gioco perché abbiamo perso la conclusione perfetta per una saga che fino ad ora lo era stata, 7.8“. Avete una sola possibilità di redimere i vostri peccati nella vostra vita, e – se per qualche ragione non l’aveste ancora fatto – questa è l’occasione perfetta. Perché là fuori troverete un esercito di sofisti pronti a stroncare l’ultima creatura di Kojima, alla luce di intricatissimi ragionamenti secondo cui bla, bla, bla e ancora bla. La verità è che, una volta afferrato il pad tra le mani e avviato il gioco, per un gozzilione d’ore non esisterà un cacchio d’altro se non Venom Snake, i suoi allegri amici e la rivincita. Non è il miglior Metal Gear di sempre? CHI SE NE FOTTE! Stiamo parlando di una delle produzioni più mastodontiche, emozionanti, avvincenti e commoventi di sempre. Una di quelle che se te la lasci scappare, davvero, non sei degno d’essere chiamato videogiocatore.

Se non si era capito sì, Metal Gear Solid V a me è piaciuto parecchio…