The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered – Recensione

Di nuovo a Cyrodiil, con le sue luci e le sue ombre

Il 2006 è quel tempo al quale dovremmo pensare quando parliamo di vent’anni fa, ostinandoci invece, tra il serio e il faceto, a rimarcare come vent’anni fa fossero gli anni di Fallout 2, Final Fantasy VII… Insomma, quel tempo pre 2000 al quale ci abbandoniamo e da cui ci lasciamo cullare. Due decenni fa, però, non era il periodo in cui cercavamo di salvare il Pianeta dalla minaccia di Jenova, o in cui cercavamo in lungo e in largo il G.E.C.K., bensì quello in cui la provincia imperiale di Cyrodiil ci accoglieva a braccia spalancate con la sua bellezza e i suoi pericoli, rispondendo alla nostra fame di esperienze che ci restituissero un senso di libertà senza precedenti all’interno di un panorama videoludico in fermento. The Elder Scrolls IV: Oblivion fece la sua irruzione sulle scene, ridefinendo le aspettative di quanto un GdR open-world potesse offrire.

Definire Oblivion un’avventura sarebbe riduttivo, oggi ma soprattutto allora, perché il giocatore si ritrovava catapultato in un’ecosistema virtuale brulicante di vita, un mondo che al netto dei suoi difetti aveva una risposta sempre pronta alle nostre azioni e coinvolgeva in tantissimi modi. Cyrodiil era un territorio tutt’altro che statico, con una geografia complessa, variegata, uno stimolo assoluto per la curiosità di chiunque volesse perdersi nei suoi meandri e scoprirne i reconditi segreti. Da lussureggianti foreste, dove la luce del sole filtrava a stento e ogni fruscio poteva rappresentare il nulla come una minaccia imminente, ci si ritrovava presto o tardi a scalare le impervie Montagne di Jerall, messi alla prova dalle intemperie almeno quanto dalle creature che le abitavano ma sapendo di poter essere ricompensati a dovere – che fosse tramite bottino di sorta o una vista mozzafiato di Cyrodill una volta in cima. Ancora, ricordo le Paludi della Marcia Nera e il senso di oppressione che trasmetteva semplicemente attraversarle, consapevole dei pericoli che vi si celavano così come delle rovine al cui interno avrei potuto ottenere chissà quale tesoro. La provincia imperiale sapeva però offrire anche paesaggi quieti, pacifici, come la Contea di Colovia con i suoi villaggi e le pianure verdeggianti, un contrasto netto con le aree selvagge che facevano da contraltare, concorrendo a offrire un’ambientazione plausibile e immersiva nella propria varietà. Non c’era zona che non fosse distintiva, tanto da rendere ogni viaggio sempre più in là, sempre più a fondo, quasi un’avventura a sé all’interno di un’esperienza immensa e coinvolgente.

In Oblivion, tutto era opportunità e al contempo pericolo.

Il vero valore di Oblivion, però, non risiedeva solo in una geografia di tutto rispetto quanto, in particolare, nell’interattività che GdR di questo stampo sapevano dare e questo gioco in particolare ha elevato. Gli appassionati del genere lo sanno bene, in questi giochi non si è dei semplici avatar portati a seguire una strada predefinita bensì degli attori veri e propri (o spett-attori, se vogliamo) le cui azioni plasmano e regolano il mondo nel quale si trovano a vivere. La quantità di PNG, moltissimi dei quali pronti a offrire un incarico secondario più o meno complesso, concorreva a non lasciare mai il giocatore senza qualcosa da fare quando era stanco di esplorare per conto proprio, e il fatto che avessero una propria routine dava ulteriore valore aggiunto a un’esperienza profondamente immersiva. Certo, i difetti non mancavano e alle volte il sistema Radiant AI portava i personaggi a compiere bizzarrie di sorta (cittadini che correvano contro il muro o guardie secondo cui una battaglia era il momento perfetto per chiacchierare), ma nel complesso funzionava nel creare l’illusione di un mondo vivo e dinamico, con le sue tensioni e interazioni sociali imprevedibili che offrivano le diverse possibili sfumatura di una medievale quotidianità. Questo grazie anche alla diversità negli insediamenti stessi: la Città Imperiale era il cuore pulsante dell’impero, Chorrol colpiva per la sua eleganza mentre Bruma, come poi suggerisce il nome, era fredda e austera, e nonostante tutto ben distinta dalla decadenza e dal mistero che avvolgevano Skingrad.

In tutto questo, ovviamente, un ruolo chiave lo giocava l’esplorazione. Cyrodiil si apriva davanti ai nostri occhi, invitandoci a osare anche laddove forse non era opportuno avventurarsi (non subito, almeno), ingolosendoci con punti di interesse ai quali nessun giocatore sa resistere, proponendoci sfide di diverso tipo per mettere alla prova le nostre abilità. Tutto era un’opportunità e al contempo un pericolo, di cui eravamo consapevoli ma forse proprio per questo ne eravamo attratti; sapeva come ammaliarci, Oblivion, e poco importava quanti non-morti, minotauri, goblin e chi più ne ha ne metta potevamo incontrare, il richiamo delle ricompense (anche in termini di conoscenza) unito alla bellezza di certi luoghi, dov’era possibile scoprire le antiche vestigia di civiltà perdute come gli Ayleid, erano tutto quello di cui avevamo bisogno per spingerci spesso oltre i confini del buonsenso. Ogni caverna, fortezza, tomba, celava la perfetta opportunità per imparare qualcosa di nuovo sulla provincia imperiale e i suoi segreti, così come per migliorare noi stessi ed essere in grado di affrontare sfide sempre più complesse; un insieme di avventure, più o meno piccole ed elaborate, che andavano a plasmare un personale viaggio a Cyrodiil, seguendo la traccia principale di una narrazione epica e coinvolgente come si confà a questi giochi.

Il vero picco della narrazione, in esperienze come Oblivion ma non solo, risiede nel contenuto secondario.

Intendiamoci, in quanto fantasy medievale ne seguiva bene o male i tropi e qualcuno avrebbe potuto trovarli persino troppo convenzionali: l’assassinio dell’imperatore e la minaccia delle Porte di Oblivion che si aprivano ovunque a Cyrodiil (elemento ludicamente memorabile), pronte a riversare orde di Daedra lungo il territorio minacciandone l’integrità, davano un senso di urgenza e pericolo imminente che in teoria avrebbe dovuto spingere il giocatore a rintracciare l’erede al trono, Martin Septim, e supportarlo nella sua battaglia contro il principe daedrico Mehrunes Dagon mentre l’intera Cyrodiil rappresentava la posta in gioco di questo scontro apparentemente impari. Nulla che non si fosse già visto, e che come ogni GdR racchiudeva un senso d’urgenza “fasullo” nel senso che si era liberi di fare qualsiasi altra cosa al di là della trama principale senza che questa ne risentisse davvero, eppure funzionale all’esperienza che intendeva offrire. Il vero picco della narrazione, in esperienze come Oblivion ma non solo, risiede nel contenuto secondario: quelle storie e missioni che brillano di luce propria, dando uno spaccato più intimo e personale del mondo di gioco, e delle quale si tende a conservare maggiormente la memoria. Pensiamo, ad esempio, all’ambiguità verso cui ci spingevano trame come quella della Confraternita Oscura o della Gilda dei Ladri, oppure alla missione per Sheogorath, il Principe della Follia, a mio avviso una delle migliori per il giusto connubio di eccentricità e umorismo nero. Non è la storia che rende Oblivion memorabile quanto le storie nella storia, quei piccoli tasselli di cui si compone il mondo di gioco e fanno da intrigante corollario a una narrazione principale ben costruita ma relegata a essere seguita quando non resta altro, o quasi, da fare: ragion per cui il contenuto secondario tende a coinvolgere di più e non un è demerito verso quello principale, anzi, dimostra quanto gli sviluppatori fossero consapevoli della logica che muove i giocatori soprattutto in esperienze di questo stampo e si muovessero in accordo.

The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered spada

In termini di gameplay, Oblivion combinava il combattimento in tempo reale con meccaniche tipiche dei GdR per personalizzare il proprio stile di gioco e affrontare le minacce di Cyrodiil com’era più congeniale al singolo giocatore. Dall’utilizzo di sotterfugi come il veleno, alle sempre utili pozioni per la salute o il mana così da non trovarsi mai con le spalle al muro, fino al combattimento deciso tramite la magia (divisa in diverse scuole quali ad esempio distruzione, guarigione, illusione e necromanzia) o la più diretta forza bruta, il gioco offriva una varietà di approcci, nonché una combinazione degli stessi, tale per cui non c’era minaccia davvero fuori dalla nostra portata – sebbene una meccanica, di cui parlerò a breve, andasse a rovinare un po’ il senso di crescita e progressione che Oblivion, nella sua vastità, offriva.

L’elemento per il quale il gioco si distingueva, però, era le progressione delle abilità basato sull’uso delle stesse: uno stacco dunque rispetto al GdR più tradizionale in cui all’aumentare di livello salivano anche le statistiche corrispondenti o, eventualmente, di guadagnavano punti da scegliere dove distribuire. Qui era la pratica a farla da padrona, valorizzando così la scelta di uno stile di gioco specifico e incoraggiandone l’uso, per una crescita del personaggio organica e legata al comportamento del giocatore, capace di premiare tanto l’esplorazione quanto la sperimentazione fino a creare un legame unico con il proprio personaggio. Com’è ovvio, questo sistema che in futuro avrebbe influenzato altri giochi portava con sé bizzarrie legate al comportamento proprio dei giocatori per avvantaggiarsene (a volte sfruttando anche dei bug, come quello famoso per incrementare in modo rapidissimo la furtività): saltare in continuazione, farsi colpire di proposito, nulla era davvero fuori dalla portata di chiunque volesse “rompere” le regole del gameplay. L’idea alla base rimane comunque ingegnosa e immersiva.

Al netto dei suoi innegabili pregi Oblivion non era esente da difetti. Il più sentito era senza dubbio il famigerato “level scaling” dei nemici

Come ho accennato, al netto dei suoi innegabili pregi Oblivion non era esente da difetti. Il più sentito era senza dubbio il famigerato “level scaling” dei nemici: faceva sì che le minacce diventassero più forti di pari passo con il livello del giocatore, un’idea che sembrava logica sulla carta nella sua intenzione di mantenere il gioco impegnativo per tutta la sua durata. Nella pratica, però, poteva portare a situazioni frustranti e paradossali, come il fatto che creature comuni (lupi, goblin od orsi) diventavano potenti al punto tale da superare, in alcuni casi, i boss principali del gioco, minando dunque il senso di progressione e potenza che il giocatore avrebbe dovuto provare a mano a mano che migliorava. Non solo, questo sistema andava a detrimento dell’esplorazione perché concretizzava il rischio di trovarsi ad affrontare nemici sempre più difficili ovunque, indipendentemente dalla preparazione o dall’equipaggiamento.

Non è da meno l’intelligenza artificiale dei PNG o dei nemici: sebbene il Radiant AI fosse un sistema molto interessante per dare l’illusione di vivere in un mondo dinamico e reattivo, questa stessa illusione a volte si spezzava per via di comportamenti illogici. Spesso capitava di vedere un nemico incastrarsi nell’angolo di una stanza, incapace di trovare un percorso per raggiungere il giocatore, un PNG comportarsi in modo anomalo reagendo in modo inappropriato a una situazione di pericolo, o un animale selvatico attaccare senza un motivo apparente, interrompendo bruscamente l’esplorazione. Erano piccole imperfezioni e incongruenze che, pur non rovinassero completamente l’esperienza, potevano comunque risultare fastidiose e stranianti – senza considerare che a distanza di vent’anni ce le trasciniamo ancora dietro, non troppo dissimili da allora. Da ultimo, non rilevante quanto gli altri e, anzi, rimasto immortale per la sua natura di “meme”, abbiamo le cosiddette “potato face” dei personaggi: i volti poco dettagliati, inespressivi e curiosamente simili tra loro hanno dato originale a questo nomignolo che persiste tutt’oggi e viene ricordato con una sorta di divertente affetto, pur sottolineando alcuni aspetti non proprio di pregio della grafica, che assieme alla rigidità di alcune animazioni andava a privare il gioco del senso di realismo che invece altri aspetti concorrevano a rafforzare.

The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered minotauro

Nonostante innegabili difetti ai quali oggi guardiamo con un misto di indulgenza e nostalgia (di quei tempi, non delle imperfezioni), l’impatto di Oblivion nel panorama videoludico non si può ignorare: segnò un punto di svolta per i GdR open-world e influenzò profondamente i titoli successivi. Inoltre, consolidò il genere su console – dove io l’ho vissuto a suo tempo – dimostrando che era possibile creare mondi vasti, complessi e interconnessi capaci di offrire ai giocatori una libertà di esplorazione senza precedenti, prima appannaggio quasi esclusivo dei giochi per PC. Il suo sistema di progressione basato sull’uso delle abilità, pur con difetti e peculiarità, influenzò molti titoli successivi, incoraggiando gli sviluppatori a sperimentare con approcci meno tradizionali al level-up dei personaggi e a premiare le azioni del giocatore. La sua enfasi sulla narrazione ramificata legata alle scelte del giocatore e sulla ricchezza di contenuti divenne un ulteriore punto di riferimento, definendo le aspettative dei giocatori e spingendo gli sviluppatori a creare mondi sempre più vasti, dettagliati e interattivi. Da ultimo, la sua maggiore accessibilità rispetto a Morrowind contribuì ad allargare la base di giocatori interessati al genere, portando i GdR open-world a un pubblico più ampio e consolidandone il successo commerciale.

Come si pone Oblivion Remastered rispetto al gigante del quale ripercorre le orme in chiave moderna?

Perché questo lungo approfondimento sul gioco che fu? Perché, come ben sapete, Bethesda ha deciso di pubblicare quasi a sorpresa (quasi perché i leak non sono mancati) The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered e dopo un tuffo nel passato è ora di fare i conti col presente, di rispondere all’inevitabile domanda: come si pone rispetto al gigante del quale ripercorre le orme in chiave moderna? La sfida non è da poco, tutt’altro, poiché da un lato abbiamo la necessità di onorare l’eredità di un gioco che ha lasciato il proprio marchio, influenzando un genere e imprimendosi con forza nella memoria collettiva; dall’altro c’è l’esigenza di mettersi al passo con il pubblico odierno, che comprende anche i veterani dell’originale, abituato ad altri standard grafici e ludici. Portare un gioco del 2006 a questi standard è un’operazione che richiede non solo un semplice ritocco grafico, ma una revisione profonda di molti aspetti tecnologici e di design, pur sapendo di essere davanti a una remaster e non un remake.

The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered portali

Partiamo dai pregi, da ciò che The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered fa bene. Impossibile non notare il comparto grafico: i modelli dei personaggi sono più dettagliati ed espressivi, mentre le texture ad alta risoluzione concorrono a rendere un mondo di gioco già vivido e realistico ancora più rifinito, nonostante personalmente non apprezzi molto i colori più torbidi che sono andati a sostituire la vecchia tavolozza lussureggiante – lasciandomi la sensazione di essere tornata i tempi in cui tutto era coperto da una patina giallastra (Resident Evil 5, Final Fantasy VII: Crisis Core e diversi altri). Detto questo, l’illuminazione è stata completamente rivista, con effetti di luce dinamici che creano atmosfere suggestive e trasformano il paesaggio a seconda dell’ora del giorno e delle condizioni meteorologiche, cui bisogna poi aggiungere una serie di effetti visivi moderni quali l’HDR e il ray tracing: camminare per la rinnovata Città Imperiale o esplorare le foreste della Costa d’Oro, sono adesso esperienze che appagano l’occhio e impreziosiscono ulteriormente la bellezza di un mondo che, in fondo, già abbiamo imparato ad amare, ma ora possiamo apprezzare in tutta la sua magnificenza.

Non solo l’occhio, però, vuole la sua parte – e in realtà su questo avremo da discutere in chiave un po’ più negativa, per adesso restiamo nell’ottica dei pregi. L’interfaccia utente è stata svecchiata, diventando più intuitiva e facile da navigare: chi si è goduto l’originale, ricorderà senza dubbio la macchinosità dell’inventario, con le sue infinite categorie e sottocategorie, assieme alle logiche un po’ contorte del menu in generale. Tutto questo possiamo, infine, lasciarcelo alle spalle o quasi, grazie a un’esperienza più fluida e user-friendly che offre menu chiari e concisi, una gestione dell’inventario più efficiente e una mappa del mondo con maggiori dettaglia e una rafforzata interattività. Un salto di qualità innegabile, che permette di concentrarsi meglio sull’esperienza complessiva.

Il sistema di combattimento ora risulta più dinamico e appagante.

E il gameplay? Buone notizie anche su questo fronte: alcune meccaniche sono state riviste e migliorate, a partire dal sistema di combattimento che ora risulta più dinamico e appagante. Le scazzottate goffe e legnose del 2006 sono un lontano ricordo, in The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered ogni colpo ha un peso, ogni parata una sua importanza e ogni magia un suo impatto visivo e tattico, per un risultato complessivo più reattivo e stimolante, al quale il giocatore deve adattarsi padroneggiando diverse tecniche e comprendendo i diversi stili di lotta dei nemici. Seppur non del tutto debellato, il problema del “level scaling” è stato mitigato, orientando il gioco a premiare la progressione con un senso di crescita costante che piano piano mostra gli effettivi progressi del personaggio senza dover cozzare contro il picco di difficoltà che minava l’originale. A coronare queste generali migliorie arrivano piccole aggiunte che fanno la differenza, i cosiddetti quality of life: la possibilità di scattare, per esempio, che rende l’esplorazione meno tediosa e più dinamica, o un sistema di viaggio rapido efficiente grazie al quale ci si sposta rapidamente da un capo all’altro della mappa senza troppi patemi, riducendo i tempi morti e favorendo la gestione delle attività più interessanti.

The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered foresta

Al netto di questi graditissimi passi in avanti, The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered risponde al detto per cui non è tutto oro quel che luccica, a partire dal sempre discusso frame rate (parliamo di PlayStation 5 nella sua versione base, dunque non Pro). Sebbene la console sia teoricamente in grado di gestire il gioco a 60 fps, l’esperienza reale si è discostata in alcuni frangenti da questo obiettivo. Fondamentalmente, ci sono delle situazioni in cui le prestazioni tendono a calare: ad esempio, quando ci si trova in aree particolarmente complesse del mondo di gioco, come la Città Imperiale o, nel mondo esterno, foreste più intricate e ricche di vegetazione i cui effetti di luce elaborati possono mettere a dura prova l’hardware. Un altro momento critico è durante i combattimenti, soprattutto quelli più concitati, poiché più l’azione è carica più il sistema rischia di avere dei rallentamenti; non si può determinare un contesto specifico, sono occorrenze casuali che potrebbero capitare come no, o comunque non a tutti negli stessi scenari, ma è evidente che ci siano. Niente che si possa definire invalidante, tuttavia è opportuno segnalarlo.

L’intelligenza artificiale dei PNG e dei nemici continua a non brillare per acume.

Inoltre, alcuni dei difetti che affliggevano l’originale permangono. Le “potato face”, ad esempio, pur essendo state oggetto di un rifacimento e di un tentativo di renderle più espressive, conservano ancora il proprio retaggio inespressivo di fondo che tradisce la loro origine e può risultare straniante. Similmente, la animazioni, soprattutto quelle facciali e quelle dei movimenti, restano a tratti rigide e legnose, stridendo un po’ con la fluidità del resto del comparto tecnico e creando a volte un senso di artificialità che può compromettere l’immersione. Anche l’intelligenza artificiale dei PNG e dei nemici continua a non brillare per acume: vedere un bandito incastrarsi nell’angolo di una stanza, incapace di trovare un percorso per raggiungere il giocatore, o un cittadino reagire in modo completamente illogico a una situazione di pericolo, ignorando la presenza di un mostro a pochi passi da lui o continuando a svolgere le sue attività quotidiane come se nulla fosse, è ancora un’esperienza fin troppo comune.

Infine, dobbiamo considerare gli immancabili bug e i glitch, nostri fedeli almeno quanto indesiderati compagni di viaggio che spesso hanno però contribuito a creare situazioni memorabili nella loro totale assurdità. Anche in The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered qualcuno è sopravvissuto, caparbio, pronto a farci storcere il naso o a strapparci un sorriso involontario, o entrambe le cose. Vedere un cavallo volare nel cielo, un oggetto scomparire nel nulla o un personaggio incastrarsi in una porta sono esperienze sempiterne, che quasi saremmo delusi a non vedere più soprattutto in certi giochi. Detto questo, è ovvio che la perfezione in tal senso non esiste, non ancora perlomeno e forse mai, perciò non si può pretendere una completa assenza di queste imperfezioni – senza le quali però, ammettiamolo, non sarebbe ugualmente divertente.

Conclusioni

Tirando le somme, The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered è un’operazione nostalgica, un tentativo di rendere omaggio a un classico immortale portandolo al passo con i tempi e soprattutto facendolo scoprire a una nuova generazione di giocatori, nonché di mitigare l’attesa verso un The Elder Scroll VI che chissà quando vedrà la luce. Ci riesce? In parte. Migliora sensibilmente l’aspetto grafico e il gameplay, rendendo l’esperienza più godibile e accessibile per i giocatori moderni, coinvolgente grazie a un frame rate migliorato e più stabile che tuttavia su PS5 mostra alcune incertezze in determinati contesti e scenari. Il tutto senza stravolgere l’essenza del gioco originale, con i suoi pregi e difetti. Ciò vuol dire che i fan del 2006 ritroveranno tutte le ragioni per cui hanno amato e in parte detestato il gioco, mentre i nuovi giocatori avranno l’opportunità di scoprire un pezzo di storia videoludica in una veste grafica accattivante e un gameplay modernizzato, pur al netto delle imperfezioni di un titolo di quasi vent’anni fa. Siamo comunque sicuri che il fascino intramontabile di Cyrodiil contribuirà a farsi perdonare le imperfezioni, garantendo un’immersione pari e per certi versi superiore al passato.

  • Good
    +Ottimo il rinnovamento estetico
    +Perfetta occasione per (ri)scoprire una pietra miliare del genere
    +Diverse migliorie e quality of life che modernizzano il gioco
  • Bad
    -La versione console non è stabilissima e soffre di cali di prestazione
    -Lo scheletro del 2006 si fa passo passo più evidente, con i suoi pro e contro
  • 8 Notevole
Conclusioni

Tirando le somme, The Elder Scrolls IV: Oblivion Remastered è un’operazione nostalgica, un tentativo di rendere omaggio a un classico immortale portandolo al passo con i tempi e soprattutto facendolo scoprire a una nuova generazione di giocatori, nonché di mitigare l’attesa verso un The Elder Scroll VI che chissà quando vedrà la luce. Ci riesce? In parte. Migliora sensibilmente l’aspetto grafico e il gameplay, rendendo l’esperienza più godibile e accessibile per i giocatori moderni, coinvolgente grazie a un frame rate migliorato e più stabile che tuttavia su PS5 mostra alcune incertezze in determinati contesti e scenari. Il tutto senza stravolgere l’essenza del gioco originale, con i suoi pregi e difetti. Ciò vuol dire che i fan del 2006 ritroveranno tutte le ragioni per cui hanno amato e in parte detestato il gioco, mentre i nuovi giocatori avranno l’opportunità di scoprire un pezzo di storia videoludica in una veste grafica accattivante e un gameplay modernizzato, pur al netto delle imperfezioni di un titolo di quasi vent’anni fa. Siamo comunque sicuri che il fascino intramontabile di Cyrodiil contribuirà a farsi perdonare le imperfezioni, garantendo un’immersione pari e per certi versi superiore al passato.

  • Good
    +Ottimo il rinnovamento estetico
    +Perfetta occasione per (ri)scoprire una pietra miliare del genere
    +Diverse migliorie e quality of life che modernizzano il gioco
  • Bad
    -La versione console non è stabilissima e soffre di cali di prestazione
    -Lo scheletro del 2006 si fa passo passo più evidente, con i suoi pro e contro
  • 8 Notevole

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