Popcorn Time: Noah

Popcorn Time: Noah

Aronofsky. Un nome perennemente accompagnato da un punto di domanda, per quanto mi riguarda. Innovatore o mestierante? Genio registico o talento sopravvalutato? La sua produzione è costellata da piccole perle e film assolutamente inutili, caricaturali, grotteschi. Tra le prime potrei citare The Wrestler, ottimo ed intenso come pochi, tra i secondi Il Cigno Nero, delirio a tratti trasheggiante capace di incantare “solo” un’audience troppo facilmente  corrompibile con stereotipi ed ostentata teatralità.
Alti e bassi, luci ed ombre, allora come ora. Arriviamo ad oggi, più precisamente all’ultima fatica del regista americano: Noah.
La missione non era semplice: trasporre su pellicola una vicenda biblica tra le più note tracciando il ritratto di un personaggio complesso, carismatico e misterioso: Noé.

La veste “lussuosa” che agghinda ogni scena era identificabile fin dal trailer, c’è un’indubbia ricerca della spettacolarità che – tanto per cominciare – potrebbe disturbare chi si aspettava un lavoro essenziale, pulito, elegante.
Poco male se a sostenere la struttura ci fossero fondamenta solide, di sostanza.
Il problema è proprio che, ahimé, nonostante qualche scelta indubbiamente ispirata il film non sfonda mai quella sottile, invisibile barriera che separa un’opera “plain” da un lavoro autoriale (anche se di genere, magari)… o meglio ancora,  da un capolavoro.
La brigata degli interpreti – Crowe al comando – fa il suo lavoro senza sbavature, ma non basta. A pellicole di questa mole serve un’ispirazione particolare, una chiave di lettura più profonda ma non nascosta, la scintilla che trasformi l’interesse dello spettatore in un incendio. Visto il periodo nero per la cinematografia “commerciale” qualcosa lo si può trarre in salvo con l’arca di Noé, ma davvero poco, e l’amarezza è tanta perché, come accennavo ad inizio articolo, Darren Aronofsky poteva (doveva) fare di più.

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A noi ricorda… 

 I God games: restiamo sul genere più che su un titolo specifico, ed il genere è quello di Black & White, Populous, From Dust e chi più ne ha più ne metta, ovvero quei giochi che – tramite il comodo ausilio di mouse e tastiera – possono trasformarci in veri e propri dei per qualche oretta. Un genere “antico” come la storia videoludica stessa che, ne sono certo, ha ancora parecchi assi nella manica… in attesa di un bel God game fresco di next gen!

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Vi saluto dandovi appuntamento a venerdì prossimo con la recensione di un horror davvero, davvero interessante… Oculus, di Mike Flanagan!

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