Hatred – Recensione

Hatred – Recensione

L’unico motivo per cui ci ritroviamo a parlare di Hatred è per il putiferio scatenatosi in seguito a quel famoso trailer che tanto scalpore suscitò: ve lo ricordate? Un uomo imbraccia il fucile, esce in strada e compie una strage, tanto immotivata quanto efferata. Noi di sicuro non facciamo parte di quella stampa che si scandalizza facilmente e boccia il titolo a prescindere, piuttosto eravamo curiosi di sapere se questo polverone mediatico, alzato con tanta freddezza, fosse accompagnato da un gameplay degno di tanti caratteri spesi sino ad ora dalle redazioni di mezzo mondo. Provate ad indovinare come è andata?

L’incipit di Hatred è molto semplice: lo psicopatico protagonista decide senza alcun motivo di uscire di casa e uccidere quante più persone gli capitino a tiro prima di essere ucciso dalla polizia. Non c’è un perché, un prologo, una motivazione di qualsiasi tipo. Si tratta davvero solo di un pazzo che ammazza gente. Questa caratteristica è un bene o un male? Anzi, ancora prima bisogna decidere se è qualcosa che va valutato o meno. Chi vi scrive è convinto che quel che comunemente chiamiamo videogiochi siano mezzi espressione capaci di rappresentare una miriade di temi in nuovi modi: la violenza ad esempio, ha mille sfaccettature. C’è il gore autoreferenziale di Mortal Kombat, c’è la satira tagliente di GTA, la follia di capolavori come Manhunt, un titolo figlio di una critica feroce ai media.

Potremmo anche citare la violenza demenziale e fine a se stessa di Postal: in (quasi) tutte le salse la violenza ci piace, è inutile negarlo, ma questo discorso non vale per Hatred. A nessuno piace essere preso in giro ed è troppo palese che il tasso di violenza di Hatred sia proporzionale alla ricerca di notorietà del team di sviluppo. Non ci addentreremmo quindi in inutili polemiche su quanto sia inopportuno un gioco del genere in un mercato come quello statunitense dove le armi sono facilmente reperibili e le stragi inquietamente quasi all’ordine del giorno. Magari è un loro modo di esorcizzare certe paure, ma quel che invece è certo è che Hatred, a prescindere da valutazioni morali di ogni tipo, non è un titolo divertente con cui passare le ore necessarie per completarlo.

Ma come si presenta Hatred? Il titolo dei Destructive Creations è uno sparatutto twin-stick con visuale isometrica. Una pessima combinazione di visuale, scelte cromatiche e controlli rende l’esperienza complessiva piuttosto frustrante. Ma andiamo con ordine: la visuale isometrica si rivela una pessima scelta negli interni, dove spesso non è chiaro dove si trovino le porte e si rimane incastrati, con somma frustrazione, mentre le forze dell’ordine cercano di mettere prematuramente fine alla nostra strage. Il gioco è interamente in bianco e nero (salvo per alcuni dettagli rossi) e questo rende ancora più difficile distinguere gli elementi negli ambienti: si tratta di una scelta stilistica apprezzabile, ma decisamente poco funzionale ed irritante.

I controlli infine vanno a chiudere il cerchio rivelandosi del tutto inadeguati: il tasto per accovacciarsi è così inutile che potrete disattivarlo nelle opzioni, ma per correre dovrete premere la levetta analogica sinistra, che in un twin-stick è semplicemente folle. Il tasto per lanciare le granate fa partire un’animazione così lunga che raramente sceglierete di usarle, complice anche un’interfaccia minimale e poco chiara che non sempre vi farà capire chiaramente quante granate vi restano.  

Mentre vagate per gli ambienti urbani spesso vi verranno proposti alcuni obiettivi secondari, che prevedono principalmente lo sterminio delle persone all’interno di alcuni edifici particolari come bar e stazioni di polizia. Questi obiettivi secondari, svolgendosi negli interni con tutti i problemi sopracitati e con la complicità di un’intelligenza artificiale inadeguata, rendono ogni sezione un terno al lotto: vi potrebbe capitare di trovare un punto che la polizia non riesce a raggiungere permettendovi così di sterminare tutti e tutto, ma è altrettanto frequente vedere l’anonimo protagonista morire senza aver capito bene da che parte arrivano i proiettili. La visuale può essere anche ampliata in una direzione a nostra scelta, lasciando però il nostro anti-eroe scoperto e pronto per una morte rapida.

L’unico elemento interessante del gameplay consiste nel recupero della vita, che avviene attraverso le tanto chiacchierate fatality sui cittadini agonizzanti: una scelta di pessimo gusto, che però da un punto di vista del gameplay potrebbe funzionare, creando una catena di uccisioni aggressiva e non curante delle ferite. Nella pratica questo meccanismo non funziona molto bene, perché quando si è accerchiati dalla polizia, i controlli non permettono di interagire come vorremmo con l’ambiente e con le vittime in difficoltà da sopprimere. Spesso la strategia migliore sarà quella di far esplodere più elementi possibili (magari iniziando con le auto, che tanto sono a dir poco impossibili da guidare), sfruttando anche la fisica folle che fa esplodere tutto molto più del normale

In conclusione… 

Cattivo gusto a parte, che sarete in grado di valutare da soli, i problemi di Hatred sono di natura strutturale e rendono il titolo dei Destructive Creations non degno del vostro tempo e del suo costo a meno che non siate assolutamente curiosi di vedere di persona come si presenta. Un titolo del genere sarebbe passato del tutto inosservato se non fosse per la polemica suscitata, e solo per un po’ di gossip forse non vale la pena di spendere del tempo e dei soldi.

Una cosa però la possiamo garantire: Hatred avrebbe ricevuto le stesse recensioni negative anche se al posto di uccidere civili aveste dovuto piantare alberelli. Quando un titolo arriva sugli store (digitali) non c’è campagna mediatica che tenga: se i problemi ci sono, non saranno i galloni di sangue a coprirli.

Voto: 4,5/10

Da quando ho scoperto che i piaceri che i miei pollici opponibili potevano darmi con un joypad erano pressoché infiniti non ho mai smesso di videogiocare. Appassionato di cinema e musica, sempre e solo a livello maniacale.

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