Un viaggio onirico tra morte, connessione e umanità — più grande, più profondo e più folle che mai.
Sam Porter Bridges. Sam Strand. Il corriere solitario, l’uomo che ha sfidato tempeste, cataclismi e solitudine per ricucire i frammenti di un mondo spezzato. È questo il volto — segnato, stanco ma determinato — che torna a guidarci nel viaggio di Death Stranding 2: On the Beach (che potete acquistare da GameStop qui). Ancora una volta, a interpretarlo è l’attore statunitense Norman Reedus, che con la sua presenza fisica e carismatica restituisce al personaggio una credibilità rara nel panorama videoludico. Ma Sam non è solo. Il sequel del visionario Hideo Kojima porta con sé una squadra creativa di altissimo livello, che trasforma un semplice videogioco in un’esperienza cinematografica, emotiva e intellettuale che, francamente, non ha molti paragoni nel videoludo attuale.
Sviluppato da Kojima Productions, lo studio fondato da Kojima stesso a Tokyo, Death Stranding 2 è un progetto che porta impresso il DNA del suo autore in ogni pixel. Hideo Kojima non si limita a firmare il progetto: lo produce, lo dirige, lo scrive e lo plasma con una coerenza d’intenti che ha pochi eguali nel mondo dell’intrattenimento. Al suo fianco, ritroviamo alcune figure chiave che già nel primo capitolo avevano dato forma e sostanza all’universo narrativo e visivo del gioco: Yoji Shinkawa, storico collaboratore di Kojima, torna a disegnare personaggi e mecha con il suo stile elegante e inconfondibile; Yuji Shimomura si occupa della regia d’azione, garantendo una messa in scena curata e spettacolare; e Ludvig Forssell ci accompagna di nuovo con le sue musiche malinconiche e potenti, capaci di amplificare ogni passo e ogni silenzio.



Ma non sarebbe una vera “kojimata” senza lo stardom hollywoodiano. Kojima, che ormai possiamo considerare quasi il Tarantino del videogioco, non resiste al richiamo del grande schermo e costruisce un cast di personaggi interpretati da volti notissimi del cinema e della TV. E non si tratta solo di comparse o camei: ogni personaggio è costruito con cura maniacale, parte integrante di un intreccio narrativo che sfida i confini tra videogioco e arte performativa. È una storia che mescola filosofia, fantascienza, emozioni crude e immagini surreali. E se già il primo Death Stranding aveva fatto discutere — tra chi lo definiva un capolavoro e chi un walking simulator glorificato — questo sequel si presenta con ancora più ambizione, più misteri e più coraggio.
Death Stranding 2: On the Beach è uno di quei titoli destinati a dividere il pubblico, a innescare conversazioni e a spingere il medium videoludico sempre più verso l’autorialità. È un’esperienza difficile da classificare, che può essere amata o rifiutata, ma che di certo non passa inosservata. E sì, lasciatemelo dire: Kojima l’ha rifatto. Ha creato un mondo da esplorare, una metafora da interpretare, un’opera da vivere.
E allora andiamo a scoprire insieme perché.



Narrativamente parlando, la storia di Death Stranding è — diciamolo senza troppi giri di parole — un gran casino. Un caos affascinante, stratificato, denso di simbolismi e pieno di voli pindarici che spaziano dalla nascita di Sam fino alla natura delle misteriose EE (Entità Estintive), passando per concetti tanto complessi quanto criptici come il Death Stranding stesso, i Bridge Babies, le creature arenate e la dimensione dell’aldilà detta “spiaggia”. Per chi ha giocato il primo capitolo con attenzione, è stato come leggere un trattato di filosofia esistenziale travestito da gioco post-apocalittico. Per chi invece si è avvicinato al titolo con un approccio più casual, magari attratto dal cast o dalle immagini suggestive, dev’essere sembrato come cercare di montare un mobile IKEA senza istruzioni… O con il manuale scritto in una lingua morta. Eppure, sotto l’apparente confusione, c’è una trama straordinariamente profonda, che al confronto fa sembrare i già intricati Metal Gear Solid delle fiabe per bambini.
Chi non ha giocato il primo non deve essere (troppo) spaventato dalla mole di contenuti che dovrà “assorbire” per godersi questo sequel. Certo, l’intero mondo di Death Stranding sembrerà incomprensibile all’inizio, ma dopo qualche minuto (e guardando il video pubblicato da Sony qui) avrete le idee più chiare.
Death Stranding 2: On the Beach è uno di quei titoli destinati a dividere il pubblico
Per chi ha bisogno di un breve recap: Death Stranding ci catapultava in un futuro distopico dove una catastrofe cosmica, nota appunto come Death Stranding, ha abbattuto le barriere tra il mondo dei vivi e quello dei morti. I defunti, incapaci di “passare oltre”, si manifestano come creature invisibili e mortali chiamate CA (Creature Arenate), in grado di causare esplosioni devastanti note come voidout. In questo scenario surreale, Sam Porter Bridges, un corriere solitario con la capacità unica di ritornare in vita dopo la morte, viene incaricato di ricucire gli Stati Uniti frammentati, collegando città isolate attraverso una rete di comunicazione chiamata Rete Chirale. A complicare le cose, ci sono neonati in capsule — i Bridge Babies — che permettono ai corrieri di percepire le creature dell’aldilà, e un cast di personaggi eccentrici come Deadman, Mama, Fragile, e l’enigmatica Amelie, la quale potrebbe essere la chiave per prevenire un’estinzione globale.



Death Stranding 2: On the Beach riprende esattamente da quel punto. Dopo la rivelazione finale sul vero ruolo di Amelie e sul significato dell’estinzione, Sam ha finalmente abbattuto i muri — sia fisici che emotivi — tra le persone. Ma come Kojima ci ha abituati, nulla è mai davvero finito. Le spiagge sono ancora lì, i misteri non si sono dissolti, e il mondo continua a convivere con la paura dell’ignoto. Sam, segnato dagli eventi del primo gioco, si era isolato assieme a Lou (diminutivo di Louise), la sua Bridge Baby oramai cresciuta fuori dalla capsula. Ma non c’è tranquillità per lui, perché il nostro corriere viene di nuovo chiamato all’azione da Fragile, che chiede a Sam di aiutare la sua nuova compagnia, la Drawbridge, di collegare le città del Messico e dell’Australia alla rete chirale. Le premesse sono nebulose, come sempre con Kojima, ma una cosa è certa: la posta in gioco è ancora più alta, e le domande sollevate questa volta potrebbero non riguardare solo la connessione tra i vivi, ma anche quella con ciò che abbiamo perso per sempre. E con Death Stranding 2, l’autore giapponese rilancia la sua visione, portandoci in un territorio ancora più simbolico, onirico e, inevitabilmente, controverso.
Una trama straordinariamente profonda, che al confronto fa sembrare i già intricati Metal Gear Solid delle fiabe per bambini.
La storia di Death Stranding 2: On the Beach si svolge undici mesi dopo gli eventi del primo gioco, ma il tempo trascorso non ha portato solo quiete e ricostruzione. Dopo aver portato a termine l’impossibile — ovvero ricollegare un’America frammentata e rinata sotto il nome di United Cities of America (UCA) — Sam Bridges sembra aver tagliato i ponti con tutto e con tutti. In circostanze mai del tutto chiarite (almeno inizialmente), abbandona le UCA e si allontana dal governo, portando con sé Lou in cerca di un’esistenza più personale, forse più umana assieme a quella che sembra una vera e propria figlia. Nel frattempo, anche gli alleati storici della Bridges di sono disuniti, perdendosi di vista: Die-Hardman, ormai ex presidente, è sparito dai radar; Deadman e Heartman hanno preso strade diverse, lasciando spazio a un mondo post-UCA più frammentato, più ambiguo — e forse ancora più interessante da esplorare.



Al posto della disciolta Fragile Express, emerge una nuova organizzazione chiamata Drawbridge, guidata da una Fragile più determinata che mai, ancora una volta interpretata dalla magnetica Léa Seydoux. Drawbridge rappresenta una nuova idea di connessione, meno centralizzata e più umana, e si presenta come un team più variegato e — permettetemi — anche più cinematografico. A bordo del loro quartier generale mobile (che funge spesso da hub di gioco), la DHV Magellan — una specie di testa del Metal Gear Rex con propulsori, che sembra uscita direttamente da un sogno (o incubo) di Kojima — troviamo personaggi nuovi ma già memorabili.
Kojima rilancia la sua visione, portandoci in un territorio ancora più simbolico, onirico e, inevitabilmente, controverso.
C’è Dollman, doppiato dal regista Fatih Akin, eccentrico, carismatico e irresistibilmente strano: ogni sua scena è una gioia da guardare. Poi Tarman, il ruvido ma compassionevole capitano di nave con un passato tragico, una mano mancante e un inquietante gatto chirale come compagno: e sì, è davvero interpretato da quel George Miller. E ancora Rainy, interpretata da Shiori Kutsuna, una ventata di aria fresca con la sua dolcezza contagiosa, e Tomorrow, portata in scena da Elle Fanning con un’aura enigmatica e poteri che sfidano le leggi della realtà — può nuotare nel catrame nero come se fosse acqua termale. Non dimentichiamoci poi del nostrano Luca Marinelli, diventato uno degli attori preferiti da Hideo Kojima. Posso aggiungere che la “potenza” di questo stardom viene valorizzata da una modalità foto che ha davvero dell’incredibile, la quale penso sia -senza timore di essere smentito- una delle migliori se non la migliore mai vista in un videgioco. Provare per credere.

Questa nuova squadra non è solo più presente, ma più viva. A differenza della vecchia crew di Bridges, spesso relegata a dialoghi via ologramma, i membri di Drawbridge interagiscono fisicamente con Sam a bordo della Magellan. Si scherza, si discute, ci si scontra, ci si confida. E per un gioco che ha sempre parlato di connessioni, questa nuova dinamica ha un peso emotivo importante. Ogni volta che tornavo alla Magellan, non vedevo l’ora di vedere come si sarebbero evoluti i rapporti tra questi personaggi — e come le loro storie avrebbero intersecato, contrastato o arricchito quella di Sam. Perché Death Stranding 2, più che mai, non è solo un viaggio attraverso paesaggi surreali e creature inquietanti: è un viaggio tra le persone.
I membri di Drawbridge interagiscono fisicamente con Sam
La nuova odissea di Sam si snoda attraverso una sorprendente varietà di paesaggi, decisamente più ampia rispetto al primo capitolo. Merito anche di una novità narrativa e ludica: l’introduzione del varco chirale, una sorta di portale dimensional-chirale che funziona quasi come uno Stargate, permettendo a Sam e alla DHV Magellan di spostarsi istantaneamente in zone geografiche completamente diverse, sparse per il mondo. Questo espediente consente al gioco di rompere i confini del continente americano e portarci in ambientazioni che variano da foreste rigogliose e umide, piene di vita e dettagli, a zone desertiche flagellate da pozze di catrame, fino a regioni instabili in cui piovono letteralmente saette infuocate dal cielo, senza contare le piene dei fiumi, sempre più pericolose. Le nuove ambientazioni non sono solo una gioia per gli occhi — che nel Decima Engine di Kojima Productions e Guerrilla brillano come non mai — ma introducono anche nuove sfide e dinamiche ambientali che arricchiscono il gameplay.
Le condizioni atmosferiche dinamiche, ad esempio, non sono semplici effetti estetici, ma eventi attivi e spesso imprevedibili che possono cambiare il destino di una consegna: mi è capitato di dover attraversare un fiume preso da una forte piena che ne ha cambiato gli argini, costringendomi a deviare il percorso, trovare riparo, ripensare il mio approccio. Oppure di perdermi in una fitta foresta, o ancora di vedere l’orizzonte sparire in una tempesta di sabbia. In quel momento, anche solo consegnare un piccolo pacchetto sembrava una missione impossibile, ma è proprio lì che Death Stranding 2 dà il meglio di sé: quando ti fa sentire minuscolo, ma necessario. Perché ogni passo ha un peso, ogni fatica un senso.
Ovviamente, parlare troppo nel dettaglio della trama sarebbe un disservizio nei confronti di chi vorrà vivere l’esperienza in prima persona. Death Stranding 2: On the Beach è uno di quei giochi che si vivono più che si raccontano, in cui la scoperta è parte integrante del viaggio e lo spoiler è davvero dietro l’angolo — e spesso rovina interi archi narrativi e colpi di scena costruiti con grande cura. Quello che posso dire, senza rovinare nulla, è che ci troviamo di fronte a un’opera ancora più ambiziosa, emotiva e personale. Kojima non si limita a espandere ciò che ha creato nel primo capitolo: lo mette in discussione, lo trasforma, lo approfondisce. E se non fosse già chiaro: sì, mi è piaciuto. Moltissimo.


Impossibile poi non soffermarci sul combat system di questo Death Stranding 2: On the Beach. Parliamoci chiaro: se c’era un aspetto del primo Death Stranding che lasciava a desiderare, era proprio il combattimento. Macchinoso, limitato, spesso ridotto a scontri goffi con banditi o a rapide fasi stealth senza troppa profondità. Kojima Productions, però, non è rimasta sorda alle critiche, e Death Stranding 2: On the Beach mostra chiaramente quanto il team abbia ascoltato e imparato. Questa volta, il sistema di combattimento è più ricco, vario e — finalmente — divertente, con un arsenale potenziabile che lascia spazio alla creatività del giocatore. Sam ora può contare su una gamma di armi impressionante: si passa dai fucili d’assalto ai pompa modificati, dalle pistole con proiettili tranquillanti ai lanciagranate all’antica. E sì, tornano anche le fidate bolas, sempre utili per neutralizzare i nemici in modo silenzioso ed efficace.
Una delle cose che colpisce è la libertà d’approccio. Che tu voglia infiltrarti di soppiatto nelle basi nemiche come uno spettro, colpendo dall’ombra, oppure preferisca entrare a muso duro con l’artiglieria pesante e scatenare il caos, Death Stranding 2 ti lascia carta bianca.
Death Stranding 2: On the Beach mostra chiaramente quanto il team abbia ascoltato e imparato
E soprattutto, ti permette di passare da uno stile all’altro in tempo reale, adattandoti alla situazione come meglio credi. Questo rende ogni scontro meno rigido e più dinamico, e aiuta a mantenere alto il ritmo anche nei momenti in cui si abbandonano le lunghe camminate per passare all’azione. Come da regole del mondo di gioco, eliminare un nemico con armi letali è ancora una pessima idea: uccidere qualcuno nel mondo di Death Stranding può causare un voidout, una sorta di esplosione nucleare che trasforma un errore tattico in un disastro a catena. Per questo, gran parte dell’arsenale è pensato per stordire o immobilizzare, mentre le armi più distruttive sono riservate alle creature CA, i nemici ultraterreni che richiedono un equipaggiamento specifico — granate, cariche chiraliche e altri dispositivi anti-arenati.

E non mancano nemmeno le boss fight, che questa volta si prendono la scena con uno stile tutto cinematografico. Alcuni degli scontri più importanti che ho affrontato sono stati spettacoli visivi mozzafiato, coreografati con una regia che ricorda certi climax da action movie di alto livello. Non si tratta solo di “sparate al mostro finché cade”: ogni boss ha una propria logica, un design ricercato, e spesso un significato narrativo più profondo. È un mix tra tensione, adrenalina e spettacolo puro. Insomma, se cercavate un Death Stranding più movimentato, con sezioni action degne di questo nome, potete tirare un sospiro di sollievo. L’azione c’è, funziona, e quando arriva… si fa sentire.
Un plauso va fatto anche al sistema di personalizzazione, che in Death Stranding 2: On the Beach è stato non solo ampliato, ma anche reso più significativo a livello ludico. Se nel primo capitolo ci si limitava perlopiù a modifiche estetiche — cappellini strambi, tute dai colori sgargianti o adesivi per lo zaino — qui la personalizzazione si fa funzionale, e diventa un vero strumento strategico. Sam può ancora sfoggiare un look da corriere post-apocalittico con stile, ma ora ha accesso a una gamma più ampia di dispositivi, patch, moduli e accessori che influenzano concretamente la sua efficacia sul campo.
L’azione c’è, funziona, e quando arriva… si fa sentire.
Il cuore di questa evoluzione è lo zaino modulare; su di esso è possibile applicare toppe e piccoli dispositivi chirali che offrono bonus attivi o passivi. Alcuni alleggeriscono il peso complessivo del carico, rendendo più agevoli le traversate su terreni accidentati; altri accelerano il tempo di ricarica delle armi o migliorano la resistenza ai danni ambientali; ci sono anche personalizzazioni che aumentano la stabilità durante i combattimenti corpo a corpo o che riducono il rumore prodotto dai movimenti furtivi. Insomma, ogni gadget può fare la differenza tra una consegna riuscita o una rovinata da una caduta o da un colpo di bastone elettrico.

E non finisce qui. La tuta di Sam è anch’essa migliorabile in modo più sensato, con materiali resistenti agli agenti atmosferici o ottimizzati per le diverse condizioni ambientali. Anche i veicoli — quando accessibili — offrono un certo grado di customizzazione, dal colore alla funzionalità, rendendo l’equipaggiamento sempre più personale e adattabile allo stile di gioco del giocatore.
Tutti questi elementi contribuiscono a rendere Death Stranding 2 un’esperienza ancora più immersiva e “tua”, in cui non sei semplicemente Sam, ma il tuo Sam: equipaggiato, modificato e vestito secondo le tue esigenze, il tuo stile e le sfide che scegli di affrontare. Non è solo un vezzo estetico, ma una vera espansione dell’identità del giocatore nel mondo di gioco. Un altro tassello, insomma, in quell’enorme puzzle fatto di connessioni — materiali, emotive e adesso anche tattiche — che Kojima ha costruito con così tanta cura.
Death Stranding 2 è un’esperienza ancora più immersiva e “tua”
Death Stranding 2: On the Beach non è solo un’esperienza narrativa o un’opera d’autore: è anche un vero e proprio pozzo senza fondo di gameplay. Le meccaniche di consegna, esplorazione, combattimento e interazione ambientale si intrecciano in modo armonioso e, se decidete di andare oltre la semplice “missione principale”, vi accorgerete che le ore di gioco possono facilmente superare le 60 o addirittura le 80, anche senza l’ossessione del completismo. E fidatevi, esplorare ne vale davvero la pena. Non si tratta solo di trovare oggetti collezionabili o materiali utili, ma di scoprire sequenze cinematiche nascoste, spesso spettacolari, che arricchiscono la narrativa in modi sorprendenti. In un gioco dove ogni passo è una scelta, anche decidere di deviare leggermente il percorso può portarvi in luoghi che cambiano il vostro punto di vista sulla storia o sui personaggi. Kojima, come al solito, non lascia nulla al caso.

Dal punto di vista tecnico, c’è ben poco da criticare. Anche su una PlayStation 5 standard, Death Stranding 2 gira in maniera fluida e stabile, senza cali di framerate evidenti, glitch grafici o crash improvvisi. Il mondo di gioco è immenso, dettagliato, vivo, eppure tutto funziona con una fluidità impressionante. È una di quelle esperienze dove ti dimentichi che stai giocando su hardware di ormai qualche anno: i caricamenti sono rapidi, le animazioni impeccabili, e l’integrazione tra gameplay e cinematiche è talmente naturale che a volte ti accorgi con un leggero ritardo che la cutscene è finita e sei di nuovo in controllo di Sam. Il gioco offre due modalità grafiche classiche: Performance, che punta alla fluidità con framerate più alto, e Quality, che predilige la resa visiva con dettagli più nitidi e illuminazione avanzata. E se posso darvi un consiglio da fan di Kojima: scegliete la modalità Quality. È qui che l’estetica del gioco brilla davvero, rendendo giustizia alla regia, alle inquadrature, ai paesaggi mozzafiato e alla fotografia curatissima di ogni singola scena.
Insomma, Death Stranding 2 è una di quelle esperienze dove l’equilibrio tra forma e sostanza è più che raggiunto: si gioca bene, si guarda meglio, e si vive con intensità. E se avrete la pazienza di perdervi — nel senso più positivo del termine — tra le sue montagne, deserti, rovine e spiagge, sarete ripagati da un mondo che non smette mai di sorprendere.
Non possiamo chiudere questa recensione senza menzionare uno degli aspetti più affascinanti e originali di Death Stranding 2: On the Beach: il multiplayer asincrono, o come ama definirlo Kojima, il “gameplay sociale connesso”, basato sul concetto di strand. In un mondo narrativamente e fisicamente isolato, Death Stranding riesce a creare un senso di comunità silenziosa, di presenza invisibile che accompagna ogni passo. Le azioni del nostro Sam — e parliamo proprio del nostro Sam personale, quello che abbiamo vestito, modificato e fatto crescere — possono influenzare il mondo di gioco anche per altri giocatori/giocatrici, e viceversa. Possiamo lasciare cartelli di avviso, di incoraggiamento, o semplicemente segni del nostro passaggio. Alcuni rigenerano la stamina, altri indicano un pericolo, altri ancora possono suggerire una scorciatoia.
Ma non è tutto: strutture più complesse come ponti, rifugi, torri di osservazione o intere strade asfaltate possono essere costruite in modo collaborativo, e rimarranno attive per tutti i giocatori collegati allo stesso server. È un sistema che funziona senza bisogno di chat vocali, lobby o matchmaking, ma che trasmette comunque un senso fortissimo di connessione e cooperazione. E non è solo una questione tecnica: è un gesto poetico. È bellissimo andare a dormire dopo aver lasciato un tratto di strada incompiuto, solo per tornare il giorno dopo e scoprire che altri giocatori l’hanno completato per te, lasciandoti un like. È un modo sottile ma potente per ricordarci che anche nei mondi più solitari, non siamo mai davvero soli. Personalmente, è una delle meccaniche che amo di più, e che riesce a trasformare ogni gesto — anche solo una scala piazzata nel posto giusto — in un piccolo atto di gentilezza condivisa. Un concetto raro nei videogiochi, e ancora più raro nella vita.
Un meritato applauso va anche al comparto audio, che in Death Stranding 2: On the Beach raggiunge livelli di eccellenza tanto sul piano tecnico quanto su quello emotivo. Partiamo dal doppiaggio italiano, spesso trascurato in produzioni di questo calibro, ma che qui brilla davvero. Andrea Lavagnino torna a dare voce a Sam Porter Bridges con quella sua intonazione ruvida e stanca, ma incredibilmente umana, mentre Domitilla D’Amico regala alla Fragile di Léa Seydoux un’intensità commovente, fatta di sfumature emotive autentiche e credibili. Intorno a loro, un cast vocale di altissimo livello che restituisce dignità e spessore a ogni personaggio, anche quelli secondari. È raro che un doppiaggio localizzato riesca a mantenere intatto l’impatto delle performance originali, ma in questo caso il lavoro svolto è talmente accurato che merita di essere sottolineato.

E poi c’è la colonna sonora, che come sempre in un gioco di Kojima non è un semplice accompagnamento, ma una componente narrativa vera e propria. Alle composizioni evocative di Ludvig Forssell, capaci di amplificare ogni momento con grazia quasi cinematografica, si affiancano brani selezionati con una cura maniacale da band come Low Roar, Silent Poets, CHVRCHES e persino gli Apocalyptica. Le canzoni non sono solo “musica di sottofondo”: sono scelte per dialogare con ciò che accade su schermo, per sottolineare il peso di un addio, l’inizio di un viaggio, o il silenzio tra due personaggi che non hanno più parole. Alcuni brani possono persino essere sbloccati durante l’avventura e riprodotti nel lettore musicale di Sam, un dettaglio tenero e immersivo che trasforma le lunghe camminate in esperienze personali, quasi meditative, dove anche la musica diventa parte del viaggio.
In definitiva, mentre il primo Death Stranding era un esperimento bizzarro e divisivo — tanto affascinante quanto, a tratti, disconnesso — il sequel sembra invece avere uno scopo più chiaro, una forma più definita. Kojima non ha rinunciato alla sua visione autoriale, né al gusto per l’assurdo e il surreale, ma stavolta ha incanalato tutto in un’esperienza più coesa, più godibile, più raffinata. Death Stranding 2: On the Beach è uno di quei rarissimi sequel che riesce a migliorare ogni singolo aspetto del capitolo precedente, senza perdere la propria identità. E in un’industria spesso schiava del déjà vu, questa è una vera rarità.
Conclusioni
Death Stranding 2: On the Beach è la prova definitiva che Hideo Kojima non è interessato a seguire le regole — vuole riscriverle. È un gioco che sfida i generi, le aspettative e il giocatore stesso, offrendo un’esperienza ambiziosa, surreale, emozionante e, soprattutto, profondamente umana. In un mercato videoludico sempre più saturo di formule riciclate, questo sequel riesce a essere tutto ciò che il primo titolo aspirava a diventare: non solo un viaggio fisico, ma anche un’esplorazione interiore, un invito alla connessione.
Tecnicamente è solidissimo, con due modalità grafiche su PS5 (Quality e Performance), nessun bug rilevante, e un comparto audio d’eccellenza, tra doppiaggio italiano di qualità e una colonna sonora che accompagna ogni passo con potenza ed emozione. Il multiplayer asincrono resta una delle idee più brillanti del gioco: silenzioso ma presente, capace di creare legami reali tra giocatori che non si incontreranno mai.
Non è un gioco per tutti — e non cerca di esserlo. Ma per chi è pronto ad abbracciare il ritmo lento, i momenti di silenzio, la stranezza narrativa e le emozioni sincere, Death Stranding 2 non è solo un videogioco: è un viaggio personale, collettivo e artistico. E forse è proprio questo che lo rende così speciale. Kojima l’ha rifatto. E stavolta, lo ha fatto ancora meglio.
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Good
+Trama degna del miglior Kojima+Combat system rinnovato e vario+Modalità foto eccezionale+Il Decima Engine in splendida formaBad
-Se non avete amato il primo, difficilmente amerete il sequel
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