Pokémon Giallo: Nostalgia canaglia

Pokémon Giallo: Nostalgia canaglia

I nostri ricordi sono il nostro possedimento più prezioso, nonostante non sia possibile dargli un prezzo, un valore concreto. Sono dentro di noi, sopiti, ma in alcuni casi basta un qualcosa, una scintilla, per farli riaffiorare, un po’ come un giocatore in panchina che, nel momento decisivo della partita, viene chiamato dall’allenatore, che lo schiera in campo pieno di energia, pronto a spaccare il mondo. Quel mondo è però in realtà il nostro cuore, il nostro cervello, le nostre budella. Vale per la musica, la letteratura, e chiaramente anche i videogiochi: gli anni passano, si matura, cambiano e si evolvono anche e soprattutto i gusti, videoludici e non, ma basta una partita, quella scintilla menzionata poco fa, per far tornare “la scimmia”, quella foga che mai avresti pensato di poter sentire addosso come un tempo. Sono anni che ignoro con sistematico nichilismo i Pokémon: divorati all’epoca in ogni loro declinazione, me ne sono debitamente tenuto a distanza sin dai primi anni del 2000. Colpa dei tumulti adolescenziali, della robaccia metal che ti entra nelle orecchie e ti trasforma qualsiasi bestiola carina e coccolosa in un prurito fastidioso ed insopportabile, dei videogiochi, gli RPG in primis, che ti fan venire voglia di spappolare quello stramaledetto Pikachu con una mazza chiodata o una palla di fuoco carica di magma incandescente.

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E via, tonnellate di batterie polverizzate, diottrie perse, spuntini saltati e cartoni animati smorzati sul più bello, spariti per sempre, inghiottiti dall’odio cosmico e da una presunta crescita, dallo sviluppo di un’attitudine figlia di Nietzsche e dei Deicide. Pokécosa?

Vedere tuoi “quasi” coetanei sbavargli ancora dietro mentre ti inebri dell’impermeabilità del tuo spirito, almeno quando la cosa non ti taglia fuori da certe discussioni, ti fa quasi sentire un prescelto. “Ah! Ma ancora dietro ai Pokémon state?

Poi però sbuca all’improvviso una celebrazione, i 20 anni di un nome che ha letteralmente sconvolto intere generazioni di piccoli nerd e non, e tutti sull’Internet ne parlano, anche certi nerboruti quasi-40enni che continuano ad incensarlo, e allora ti fermi e inizi a ricordare le sessioni infinite, la caccia ad ogni singola creatura presente in quella scatoletta magica e tuttora inarrivabile. Arriva un grillo parlante a sussurrare: “Ci starebbe proprio bene una serie di articoli un po’ nostalgici per celebrare i Pokémon.” e lì scatta la famosa scintilla di cui sopra. Da lì al mettere alla prova Pokémon Giallo, il gioco che ha catalizzato praticamente un anno della tua vita, per vedere che effetto ti fa giocarlo dopo tre lustri, il passo è breve, brevissimo.

Il retrogaming, in quest’epoca di tripla-A smidollati e dalla profondità di un winning speech dell’ultima Miss Italia, è uno degli “J’accuse” più radicali e seguiti e urlati a gran forza da giocatori in rivolta, ma quando hai perso l’interesse verso un microcosmo così iconico e radicato, non è semplice farlo rientrare nuovamente a casa tua, neanche fosse il vicino fastidioso che torna dai suoi 3 mesi di vacanza e ti porta dentro tutta la sabbia che, nel tuo modesto weekend in campagna, non hai visto neanche col binocolo. C’è scetticismo, c’è l’impatto con la grafica, con la macchinosità, con i limiti tecnici, per non parlare di quelle bandacce nere che sul tuo 3DS XL fiammante stonano proprio. Il gracchiare dei suoni, nonostante il tuo background musicale, ti urta un po’ le sinapsi, e poi arrivano quei nomi di default per il protagonista e il suo acerrimo rivale (“Gigi” e “Pippo”? Ma cos’è, un cinepanettone?) che all’epoca il sorriso te lo strappavano, ma ora fanno venire un po’ l’orticaria.

Nere bandacce nere

Nere bandacce nere

Ci pensano però le prime battaglie a far riaffiorare i ricordi: le precise strategie, la marziale memorizzazione del rapporto alla “sasso, carta, forbice” degli elementi di ogni Pokémon, da tenere sempre bene a mente per non buttare all’aria un intero scontro facendosi ammazzare la bestiola più forte in squadra. Il fuoco brucia l’erba, l’acqua lo spegne, ma perché la lotta è così efficace contro la roccia? Non importa: l’importante è immagazzinare elemento, statistiche e attacchi di tutti e 150 i mostriciattoli, ed affrontare ogni percorso e ogni palestra con il giusto team. Pokémon Giallo era una vera croce e delizia rispetto ai due suoi illustri predecessori. Godeva di tante migliorie, rimescolava alcune carte in tavola (legate in particolare alla collocazione di alcuni Pokémon), ma al contempo ti privava di una scelta la cui intensità era seconda soltanto a quella dell’università, o quelle affidate ad un diplomatico: Charmender, Bulbasaur o Squirtle? Qui no: la nemesi si becca il raffinato e “sfaccettato” Eevee, e al povero sfigato impersonato dal giocatore, un Pokémon di tipo elettrico, perfetto per “darselo in faccia” sin dal primo contatto con un allenatore (nello specifico, Brock e le sue “rocciose” creature, totalmente immuni a tuoni, fulmini e saette). All’epoca non potevo capire. Provai per qualche minuto il Blu, con l’imponente Blastoise in copertina, e quello sì che fu un fulmine: la concretizzazione dei miei sogni da cacciatore di Pokémon, la materializzazione davanti ai miei occhi di un desiderio coltivato pomeriggio dopo pomeriggio, reso agrodolce da una certa disillusione che mi ha sempre (fortunatamente?) accompagnato. Assaporarlo tramite la scatoletta fiammante di un mio amico, e riviverlo sul mio Game Boy Color cyber-viola, illuminato soltanto dal fascio di luce lasciato passare da una finestra, unica fonte della mia personalissima risoluzione 4K all’epoca. E chi aveva il tempo o i mezzi di comprendere le differenze tra le varie versioni? Mica c’erano Internet, le Wiki, i forum strapieni di nerd. C’era Pikachu lì sopra, bastava e avanzava.

Nel 2016 lo posso giocare ovunque, anche in macchina, con la retroilluminazione talmente forte da abbronzarti. Ah, la tecnologia. Per l’impennata della difficoltà non si può far nulla, invece: la tecnologia di poco fa, accompagnata persino da un sospiro di sollievo misto a compassione per l’arretratezza di qualche lustro fa, proprio lei, ci ha rammollito. Quel primo scoglio di Brock però, porta indirettamente allo sfoggio di tutte le numerose opzioni di approccio, substrati che però erano impossibili da apprezzare all’epoca. Una complessità profonda e appagante, che mi ha divertito come non mi accadeva da tempo. Grazie, Brock.

Il fascino di Mewtwo è tuttora cosmico

Il fascino di Mewtwo è tuttora cosmico

A testimoniarne l’intatta grandezza ci pensa la mole di ore giocate nel giro di un weekend, circa 15: un record personalissimo (purtroppo, ma ci sto lavorando su), complice anche la natura portatile e una scappata in Abruzzo, il Wyoming d’Italia dove l’evasione videoludica è uno sport regionale. Erano oggettivamente anni che non mi capitava di divertirmi così tanto sul Nintendo 3DS o anche altrove. Erano anni che non sfruttavo qualsiasi briciola di tempo per accendere l’ennesima handheld impolverata (colpa mia eh, di capolavori ce ne sono a pacchi lì sopra), e sfruttare anche solo 5 brevissimi minuti per una sessione. Qualche passo in più, qualche cattura imprevista, che magari è il momento buono (e sì, sono anni, di nuovo, che non vedevo freddi calcoli giocherellare così bene con il caso e la fortuna)… ogni occasione, ultimamente, mi è sembrata ottima per sentire quell’odioso “Pika” iniziale, quella faccetta gialla genuinamente simpatica, e immergermi in un’estasi di imperfezioni, interfaccia machiavellica e ricordi. È macchinoso, lo ribadisco, a tratti indigeribile, ma mi ero completamente dimenticato delle sue finezze tattiche, del suo backtracking estenuante eppure appagante dopo aver ottenuto un po’ fortuitamente una MN, chiacchierando per caso con qualcuno in una casa sperduta. All’epoca, complice un senso critico quasi inesistente, non potevo minimamente comprendere  cosa avessi davanti: quel sottile sistema a base di elementi che tanto influenzò il gaming successivamente, il sadismo intrinseco del costringere il giocatore ad imparare da solo, errore dopo errore, o chilometro da ripercorrere a ritroso dopo chilometro per una conversazione mancata, come giocare. Un sistema che ora, tanti giocatori cercano e trovano in produzioni come la serie Dark Souls, frutto di un design figlio di un chirurgo pazzo, ma che all’epoca era all’ordine del giorno, e non sembrava nulla di speciale.

È ancora difficile, in più di una circostanza mi sono ritrovato rispedito al mittente nell’ultimo Centro Pokémon dopo un “miss” non previsto, o un “brutto colpo” inaspettato sferrato dopo un attacco che tutto sarebbe dovuto essere, fuorché efficace. L’ansia di ritrovarsi senza pozioni, o di avere i box pieni perché no, vanno cambiati manualmente, o di quella pokéball che non si chiude e viene distrutta dalla tracotanza di quella maledetta bestiola in fin di vita, paralizzata, addormentata, avvelenata, e persino bruciata, ma che non ne vuole sapere di finire nel fottuto PC di Bill, nossignore.

Con Pokémon Giallo sono tornato bambino. Ma ero davvero così bravo all’epoca, o sono io che gioco a troppi film interattivi?

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Traduttore e blogger freelance, adora (s)parlare di videogiochi e musica spaccatimpani tutto il dì. Quando può suona, gioca e legge, di tutto, anche le etichette degli shampoo. Terrore dei recensori e abbassatore di voti seriale, ha brillantemente sostituito le fatture ai suoi amati boss di Dark Souls, respingendo con caparbia ossessione e gioco di scudi qualsiasi backstab della vita sociale.

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